Tra le accuse che una parte dell’opinione pubblica ci rivolge c’è quella che per sfamare i ruminanti domestici, ossia i bovini, i bufali, le pecore e le capre, sottraiamo cibo prezioso necessario ad un’umanità sempre in crescita. L’accusa è quasi del tutto infondata (l’unico alimento in competizione diretta “feed contro food” è il mais, o meglio la sua cariosside) perchè questi animali mangiano alimenti che l’uomo non può digerire come i foraggi, l’azoto non proteico e i tanti scarti dell’industria molitoria e di quella che produce oli vegetali. Abbiamo recentemente scritto un focus sulle fibre in un articolo pubblicato su Ruminantia Mese di novembre 2023 dal titolo “La fibra salverà gli allevamenti (di ruminanti )”

A questa affermazione la controparte vegana in genere replica che è vero che l’uomo non può digerire la fibra vegetale dei foraggi ma se non li coltivassimo avremmo più terra destinabile alla produzione di alimenti vegetali destinabili all’alimentazione umana come ortaggi, legumi e frutta.

Una famosa locuzione latina recita “in medio stat virtus”, ossia la virtù o la verità sta nel mezzo, che riprende “il mezzo è la cosa migliore” di Aristotele ma che troviamo anche negli scritti di Orazio e di Ovidio.

Ma cosa significa tutto questo?

I ruminanti con la loro carne e il loro latte sono stati preziosi alleati nel cammino e nell’espansione dell’uomo sulla terra in un rapporto di reciproca convenienza. Per avere cibo sano e nutriente per garantire un alto grado di benessere ad un’umanità che da poco ha superato l’impressionante numero di 8 miliardi non possiamo quindi in alcun modo rinunciare ai ruminanti. Forse paradossalmente ai monogastrici sì, anche se nella loro dieta ci sono molti sottoprodotti non più utilizzabili dall’uomo.

Si stima che siamo già autosufficienti per il riso e l’ortofrutta mentre non lo siamo per il grano e altre farine, per cui esiste un pò di competizione sulla SAU disponibile tra la coltivazione del grano e la produzione dei foraggi. La drastica riduzione, o addirittura l’estinzione auspicata da molte (non tutte) associazioni “animaliste”, degli animali d’allevamento ridurrebbe al rango di sottoprodotti da smaltire i tanti prodotti che i ruminanti trasformano in alimenti di alto valore biologico come il latte e la carne. 

Esistono in Italia molte aree dove è difficile, se non impossibile, fare ortofrutta perché c’è poca acqua o non c’è per nulla, e dove coltivare la terra anche solo per fare grano è costoso e complesso mentre adibirle alla fienagione e al pascolo può essere molto conveniente.

Secondo l’ISTAT nel 2023 in Italia c’erano circa 3,5 milioni di ettari di pascoli e prati permanenti, molti dei quali ubicati in aree non di pianura e non irrigue dove sarebbe difficile, o comunque poco remunerativo, coltivare il grano. In un recente decreto del MASAF viene meglio definito il corretto carico di bestiame per ettaro che per le zone vulnerabili deve essere di 2 UBA mentre per le altre di 4. Ammesso che in Italia ciò sia possibile, per clima e piovosità un pascolo su prato permanente non di pianura e non irriguo potrebbe “produrre” 21.900 kg di latte all’anno con tre bovine adulte con una produzione media di 20 kg di latte al giorno. Per i non addetti ai lavori la produzione media italiana di latte negli allevamenti intensivi di bovine di razza frisona è mediamente di 34 kg al giorno, quindi quasi il doppio del quantitativo utilizzato a solo scopo esemplificativo. Una produzione media di 20 kg di latte al giorno non necessita di concentrati da aggiungere, se non di una quota esigua fatta di soli sottoprodotti da somministrare alle bovine nelle prime settimane di lattazione. Se questo terreno non irriguo fosse coltivato a cereali come il grano potrebbe produrre circa 5.000 chilogrammi per ettaro all’anno, e se lo fosse a legumi come i ceci e i fagioli ne risulterebbe una quantità ancora più ridotta. Anche nelle pianure irrigue come quella Padana confrontare la produzione di latte per ettaro di latte con quella di legumi o di cereali può restituire un quadro economico ancora più favorevole al latte. A differenza delle colture vegetali viste come alternativa alla carne e al latte c’è da aggiungere che le UBA che abbiamo utilizzato per l’esempio una volta terminato il loro ciclo produttivo forniscono carne per l’alimentazione umana stimabile in 950 kg di carne (mezzene) considerando un peso vivo a fine carriera di 650 kg e una resa del 50%.

Ovviamente il ragionamento fatto fino ad ora è molto semplicistico perché ha solo l’obiettivo si stimolare un dialogo propedeutico a molte riflessioni. L’alimentazione esclusivamente vegetale si basa ovviamente non solo sul consumo di legumi tradizionali e cereali ma anche sulla soia, sulla frutta e sugli ortaggi, che hanno anch’essi una water footprint elevata e che in molti casi non sono adatti alla coltivazione senza utilizzo di concimi chimici e agrofarmaci, come molte della varietà di frutta e ortaggi coltivate in Italia.

La verità è sicuramente nel “giusto mezzo” della cultura greca che nell’alimentazione si concretizza nella dieta mediterranea dove si mangia di tutto un pò e che la scienza ha definito essere il gold standard per la salute dell’uomo, alla quale possiamo aggiungere anche la salute del nostro pianeta. In una Terra sempre più rovente, dove la piovosità è caratterizzata sempre di più da fenomeni estremi, gli agricoltori stanno adattando il loro consueto modo di irrigare a questa situazione e modificando profondamente i propri piani colturali.

Invece di demonizzare l’allevamento dei ruminanti sarà bene considerare come questi siano le specie più adatte a fornire cibo naturale per l’uomo e consentire in pratica la molto auspicata economia circolare.