Il termine “vaccinazione” fu coniato da Edward Jenner nel 1796 e deriva dalla parola “vacca” in quanto l’inoculazione nell’uomo di preparati da pustole bovine causate dal vaiolo bovino aiutava a difendersi dal vaiolo umano che a quei tempi causava numerosi morti.
Nel 1980 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato estinto il vaiolo umano grazie alla pratica su vasta scala della vaccinazione contro questa patologia.
Basta questa storia per comprendere la fondamentale importanza che la vaccinazione ha, ed ha avuto, nel combattere e prevenire, e in certi casi curare (sieri immuni), molte malattie infettive di origine batterica e virale.
I vaccini altro non sono che preparazioni farmaceutiche di microrganismi agenti di malattie la cui patogenicità è stata annullata perché morti (spenti) oppure perché sono stati modificati (vivi attenuati). In entrambi i casi il vaccino è in grado di stimolare l’immunità acquisita, ossia la produzione di anticorpi specifici verso un determinato virus o batterio patogeno. Molto importante da considerare, e motivo principale per il quale l’agente eziologico del vaiolo umano si è estinto, è che l’efficacia di una vaccinazione in una determinata popolazione è direttamente proporzionale al numero dei soggetti sui quali viene praticata.
Per proteggere la salute dei ruminanti d’allevamento esistono numerosi vaccini per lo più messi a disposizione dalle industrie farmaceutiche. Abbiamo ad oggi la possibilità di prevenire le infezioni di Adenovirus 3, Parainfluenza virale (PI3), Chlamydia psittaci, Salmonella abortus ovis, mycoplasmi (agalactiae, capricolum e mycoides), clostridi, Rinotrachetite infettiva (BHV-1), Virus della diarrea virale bovina BVDV, Virus respiratorio sinciziale bovino (BRSV), Escherichia coli, Rotavirus bovino, Coronavirus bovino, Cloxiella burneti, Mannheima haemolytica, Pasteurella multocida, Staphylococcus aureus, Streptococcus uberis, Trichophyton verrucosum, Bacteroides nodosus, etc. Nei confronti di queste infezioni sono disponibili vaccini monovalenti e polivalenti, spenti o attenuati, iniettabili e intranasali, etc.
La pratica o meglio la cultura della vaccinazione è molto radicata negli USA. Secondo l’ultimo rapporto “Dairy Cattle Practices in the United States” contenuto nel Dairy 2014 del National Animal Health Monitoring System (NAHHMS) dell’USDA il 73.8% degli allevamenti vaccina le bovine adulte. Di questi, il 68% vaccina contro il BVD, il 60.2% contro l’IBR, il 55.8% contro il PI3 e il 54.8% contro il BVRS. Nei grandi allevamenti queste percentuali salgono parecchio arrivando al 90.1% che vaccina contro la BVD e al 78.6% contro l’IBR. Negli Usa sono 12 gli agenti patogeni modificati presenti nei vaccini utilizzabili. Molto diffusa è anche la pratica della vaccinazione dei vitelli prima dello svezzamento. Questa prassi è diffusa nel 37% dei piccoli allevamenti, ma la percentuale sale all’81.3% negli allevamenti più grandi, e aiuta a conferire un’immunità acquisita nei confronti dell’IBR (34%), del PI3 (32.8%) e del BRSV (28.2%). Questi dati medi salgono a poco meno del doppio nei grandi allevamenti.
Il NAHMS monitora periodicamente il 76.7% degli allevamenti statunitensi e l’80.3% delle bovine.
Un allevamento che vuole evitare le perdite economiche derivanti dalle malattie infettive deve in primis adottare le regole generali della biosicurezza, ossia mantenere standard igienici molto elevati, una rigida regolamentazione degli accessi in allevamento, avere una “vera” recinzione che riduca la possibilità di accesso dall’esterno di animali selvatici e un controllo programmato di topi, ratti e uccelli selvatici. Accanto a queste norme è altamente consigliata l’adozione di un piano vaccinale il più completo e articolato possibile, stilato e condiviso con il proprio veterinario e non improvvisato o per imitazione.
La biosicurezza e la profilassi vaccinale sono pre-requisiti per elevare lo stato di benessere degli animali d’allevamento, per razionalizzare l’uso degli antibiotici e massimizzare i profitti.
Un adozione “massiccia” della vaccinazione in allevamento e in zone geografiche definite, unitamente ad una rigida adozione delle norme di biosicurezza, può potenzialmente portare all’eradicazione della presenza di patogeni anche molto gravi.