Fare il “Provolone”, tipico eponimo del Sud per indicare un ”casca morto o un gallo cedrone” del centro Nord, seducente ed adulatore che “ci prova” con tutte le donne, stride con la figura austera del “Monaco”, ecclesiastico retto e severo, eppure questo binomio calza a pennello nella descrizione di questa DOP casearia campana.
Il Provolone del Monaco è formaggio a pasta filata prodotto da sempre nella penisola Sorrentina, che anticamente veniva trasportato in barca di notte al porto di Napoli per poi essere venduto nei mercati del posto il giorno seguente. Era quella una Napoli capitale, dotta, acculturata, che insieme alla “gemella” Palermo dominava il commercio portuale del Mediterraneo sotto l’egida spagnola aragonese, che non era solo inquisizione e spietatezza nel comando. Gli uomini che trasportavano via nave questo formaggio, viaggiando di notte lungo la costa solevano coprirsi per resistere al freddo e alla pioggia indossando vesti simili a sai, apparendo più dei monaci che dei commercianti come spesso additati. Oggi si è persa quell’aura di romanticismo figurato che ha accompagnato per decenni questo prodotto, rimanendone solo la denominazione.
Come altre eccellenze casearie nostrane marchiate DOP questa leccornia viene prodotta per il 20% con latte di vacca autoctona Agerolese, ottenuta mediante incroci al tempo dei Borboni, mentre per il restante 80% da un blend di più razze bovine quali Frisona, Podolica, Jersey, Bruna Alpina e Meticci locali.
E’ un formaggio a latte crudo, che quindi permette una migliore conservazione delle caratteristiche organolettiche e nutrizionali del prodotto, a pasta filata e semi dura, stagionato.
La zona d’origine corrisponde ai monti Lattari, che appartengono a quell’entroterra campano, talvolta difficile da raggiungere per asperità delle tortuose strade, a tratti molto strette, a strapiombo, che attraversano radure e gole, incorniciando panorami mozzafiato e piccole valli incassate, dove brucano e brulicano in tranquillità tra rovi ed alberi vacche e capre, quando non si trovano caracollanti lungo il percorso asfaltato. Queste montagne appenniniche, che devono il loro nome proprio alla parola “latte” per l’abbondanza da sempre di questo alimento, sono dedite alla pastorizia sin dai tempi degli antichi Romani.
La catena di rilievi si estende dal Golfo di Napoli sino a quello di Sorrento dove il versante diventa molto scosceso e prende forma delle tipiche falesie della costiera Amalfitana che si affacciano sul mare.
I comuni che da disciplinare possono produrre questo formaggio fanno parte della provincia di Napoli quali Agerola, Casola di Napoli, Castellammare di Stabia, Gragnano, Lettere, Massa Lubrense, Meta, Piano di Sorrento, Pimonte, Sant’Agnello, Sorrento, Santa Maria La Carità e Vico Equense.
La forma può avere l’aspetto piriforme, senza testina e questa caratteristica differenzia questa DOP dagli altri formaggi a pasta filata, oppure a “melone”, con annessa legatura che deve suddividerlo almeno in sei spicchi. Il peso varia dai 2,5 agli 8 kg. Si utilizza caglio di vitello o di capretto oppure entrambi. La cagliata viene rotta “a chicco di mais”, che giustifica una stagionatura minima di 6 mesi fino ad un massimo di 18.
Dopo la cottura la pasta viene estratta e fatta riposare per la fase di acidificazione e poi viene filata a mano, spesso da due persone, alla temperatura di 90 °C; successivamente avviene la salatura per immersione in salamoia ed infine la legatura che aiuta l’asciugatura del formaggio che viene appeso, come da tradizione.
Una volta stagionato il formaggio è pronto per la prova dell’assaggio.
Se in precedenza per il Pecorino di Farindola ero ricorso ad un ordine fatto direttamente al Consorzio, in quanto difficilmente reperibile per la eseguità della produzione, nel caso del Provolone non ci sono stati problemi di approvvigionamento in quanto molto diffuso qui nella Capitale per cui l’ho potuto acquistare con facilità. A differenza degli altri formaggi non presenta una crosta, ma una buccia, involucro sottile che isola la pasta dal resto del mondo, e che non è edibile.
Il colore della buccia varia dal giallo pallido ad un nocciola delle forme più stagionate, percorsa dai solchi dei legacci. Il colore della pasta è di un giallo paglierino tendente al dorato, al tatto è elastica, compatta, leggermente untuosa; non è presente sottocrosta. All’interno della pasta si possono apprezzare delle occhiature, tipiche quelle “ad occhio di pernice” di media grandezza, a distribuzione irregolare. Talvolta sono presenti delle fenditure spesso dovute al taglio, presenti nelle forme di maggiori dimensioni, oppure ad una non perfetta tecnica manuale di filatura nelle più piccole. Aromi di burro, panna e lattici non cotti invadono le narici cui si aggiungono il fieno, l’erbaceo, soprattutto se prodotto in primavera, la patata lessa e soprattutto la nocciola.
In bocca una medio-elevata dolcezza si accompagna, con equilibrio, ad una sapidità della stessa intensità, mentre un’acidità medio-bassa svanisce presto lasciando una nota amara nel finale. Gli aromi percepiti al naso esplodono dirompenti in bocca nella loro fragranza, cui si aggiunge un tenue aroma di animale pulito.
La nota piccante del retrogusto non è invasiva, pur essendo persistente, e molto gradevole.
Dal punto di vista nutrizionale è un formaggio grasso, con contenuto lipidico di circa il 47,5 %, ed iperproteico, 45,5% di proteine per 100 g di prodotto, quindi altamente calorico, mentre il resto della grammatura è costituito da sale.
Tali valori sono simili a quelli del Canestrato Pugliese, Fontina, Bra, Ragusano, Bitto e Asiago d’Allevo.
Essendo ipercalorico se ne raccomandano 30-40 g a porzione; lo so è un po’ poco per chi è goloso di formaggi, ma dobbiamo pensare a quali altri alimenti abbiamo mangiato prima o continueremo a gustare dopo questa squisitezza tutta italiana.
Concludendo mangiatene con giusta austerità Monacale, senza lasciarvi sedurre dal fascino del Provolone.
Alla prossima!