A ormai tre anni di distanza dall’inizio della pandemia siamo giustificati a iniziare a tirare alcune conclusioni e trarre qualche insegnamento. L’uomo che si considerava onnipotente si è accorto con sgomento che un virus microscopico di 100-150 nm ha potuto causare la morte di 6.935.889 persone (al 24 maggio 2023 – OMS), mettere in ginocchio l’economia globale, sgretolare alcune delle granitiche certezze costruite in millenni di storia e fare emergere diffusi e globali gruppi di opinione come quelli dei negazionisti-complottisti-revisionisti e tanto smarrimento. Un altro aspetto collaterale della pandemia è stato quello di far crollare nel sentire collettivo la quasi sacralità della figura dell’esperto. Forse questo stava già succedendo prima della pandemia ma non ce ne eravamo accorti, o meglio non ne eravamo consapevoli. Costretti dal lockdown a lunghe sessioni di visione di notiziari, talk show e interviste all’esperto, ci siamo accorti che nella scienza c’è poca certezza perché i virologi reclutati dai giornalisti esprimevano opinioni molto contrastanti tra loro sul Covid-19.
La comunità scientifica, forse distratta da altre priorità, non si è presa la briga di spiegare alla gente che cosa è il metodo scientifico, spingendo le persone, visto il caos generale, a informarsi da soli sul web. Chi dovrebbe essere il garante della qualità dell’informazione, ossia i giornalisti, ha favorito un bel danno culturale all’umanità, spesso consapevolmente. Un’altra delle contraddizioni esplose in questi lunghi tre anni è stata quella di dare ulteriore forza alla figura del tuttologo. Un pò come strascico della pandemia, e forse per un giornalismo in perenne ricerca dello scoop, siamo sovraesposti quotidianamente ad esperti che esprimono il proprio parere su ogni ambito dello scibile umano. L’essere un imprenditore di successo, un premio Nobel, un politico importante, un famoso attore, un campione delle sport o un professore sembra, nel post pandemia, autorizzare ad esprimere un parere su tutto, compresi argomenti su cui non si ha competenza.
In un mondo ormai sovraccarico d’informazione e talmente diversificato nella tecnica, l’essere esperti su tutto come erano i mitologici Pico della Mirandola o Leonardo da Vinci è quanto mai fuori luogo. Chi è veramente esperto su una materia e cultore del sapere umano si guarda bene dall’esprimere un “parere autorevole” su argomenti su cui non ha competenza, o meglio non ne ha una superiore rispetto a quella di qualsiasi altra persona. Il fatto di avere, forse, un QI superiore perché ha avuto successo in uno specifico ambito non l’autorizza a fregiarsi del titolo di tuttologo. Sta di fatto che il non avere difeso il metodo scientifico durante le prime fasi della pandemia, e il tollerare che non ci sia uno stretto legame tra curriculum e incarico politico, magari di spicco, sta dando un colpo mortale alla motivazione dei giovani di studiare con impegno e progredire nelle conoscenze. Perché un giovane dovrebbe bruciare gli anni della gioventù trascorrendola sui libri quando poi sente filosofi parlare di malattie infettive, docenti universitari atteggiarsi a giornalisti o ministri a volte neppure laureati.
Questo festival dell’ignoranza sta producendo al tessuto sociale danni incalcolabili perché all’umanità per continuare a progredire verso un benessere sempre più equo e diffuso e trovare una nuova armonia con la terra, e quindi con il futuro, serve gente colta e istruita che sa riconoscere l’esperto e ascoltarlo.
Lo stesso dovrebbe fare quest’ultimo quando esce dalla zona comfort delle sue competenze. Dove trionfa la tuttologia muore il dialogo e se muore il dialogo, e quindi il confronto tra idee e esperienze differenti, muore una civiltà. Ben inteso, i tuttologi sono sempre esistiti ma il loro ecosistema era l’ambito della famiglia, del bar o dei social media. Ora la tuttologia sta scalando la società contagiando personaggi di chiara fama e questo è veramente preoccupante.
Non meravigliamoci quindi che il cambiamento climatico stia facendo aumentare in modo esponenziale i fenomeni estremi e che i “neet”, ossia i giovani che non studiano e non lavorano sono stati nel 2022 più di uno su dieci (11,7%) nell’UE tra la fascia d’età compresa tra i 15 e i 29 anni.
L’Italia ha il triste primato di essere seconda in Europa per la percentuale di Neet, appena dopo la Romania, e di non fare assolutamente nulla per analizzare e contrastare questo fenomeno terribile. E’ mia opinione che bisogna partire dalla scuola selezionando un corpo docente che, oltre ad avere un livello adeguato d’istruzione, saper insegnare e avere contatti dimostrabili con la realtà, sia consapevole e sia d’esempio nel contrastare la tuttologia e quindi l’ignoranza. I giovani sono il prodotto delle famiglie e della società, ed un futuro su cui investire il massimo delle risorse. Chi gestisce l’informazione deve essere coerente con la mission e i valori della sua professione, ed evitare di dare visibilità a chi pratica la tuttologia, e quindi la disinformazione. Il “tempus fugit” perché trascorre veloce, e vedere morire una società anche florida spesso dura un battito di ciglia. La storia è piena di esempi come questi.