Potremmo tracciare una lunga linea di attestazioni mitiche e storie di stigmatizzazione dei grandi predatori nelle società di allevatori e pastori. I lupi, in particolar modo, nelle aree interne del bacino mediterraneo sono stati nel tempo associati al demoniaco, alla violenza e alla necessaria domesticazione del selvaggio implicita nel passaggio dalle società nomadiche e semi-nomadiche a quelle sedentarie ed agro-pastorali. A questa antica negativizzazione dei grandi carnivori si sono andati sovrapponendo, nel dibattito contemporaneo, sia la considerazione sempre più grande della salvaguardia delle specie di predatori a rischio che il sistema di tutele connesso ai Parchi ed alle aree protette. Dai numeri (sempre poco chiari e che, nonostante i censimenti, non sono mai certi e tendenti al ribasso) si fatica a far chiarezza sul fatto che il predatore ora non corre più rischi, a differenza di molte razze autoctone dotate di una preziosa resilienza.
La funzione di biodiversità del predatore (e servizi eco-sistemici connessi) è realizzata solo in un contesto ambientale dove il domestico in genere è presenza marginale. Il problema si pone solo nei contesti ancora fortemente antropizzati delle aree alpine e in parte di quelle appenniniche, dove si riscontra una sovrapposizione tra aree di presenza del predatore e quelle di allevamento, molto diverse da quelle di un parco nordamericano in cui il predatore è davvero animale generatore di biodiversità, mentre lo è in modo decisamente minore da noi. Come sappiamo, nel contesto mediterraneo il paesaggio ed il territorio sono il prodotto di lunghe interazioni tra l’uomo e la natura, e come tali vanno immaginati protetti e mantenuti; laddove uno dei due fattori sovrasti l’altro, allora si perde l’identità di quel territorio. Non è un caso se anche nei nostri contesti quasi tutti i Parchi Naturali sono forgiati in aree storiche di pastorizia.
La crescente prossimità nei territori montani ed interni europei ed italiani tra insediamenti, animali al pascolo e grandi carnivori è oggi sempre più spesso oggetto di scontri “selvaggi” – è il caso di dirlo – tra sostenitori delle comunità e degli allevatori e difensori assertivi dei diritti dei predatori e delle specie minacciate. A partire dagli anni Novanta, in particolar modo, numerosi studiosi hanno denunciato il conflitto esasperato, in alcuni casi ad arte, tra animalisti ed allevatori invitando ad una modulazione più sfumata e stratificata di questo dibattito. Questi stessi ricercatori hanno invitato a ripensare i principi ispiratori delle aree protette e la loro funzione nella cura dei territori e nella costruzione delle destinazioni turistiche. Altri hanno messo in risalto le contraddizioni di un numero crescente di aree riservate per la tutela del benessere dei grandi predatori e di allevamenti intensivi, ecologicamente ed eticamente insostenibili. Stanno invece scomparendo i piccoli allevamenti, poco o nulla competitivi, ma più sostenibili ed in genere più benefici per l’ambiente. Si determina, così, un inselvatichimento degli ambienti che non torneranno ricchi di biodiversità neanche con la proliferazione dei grandi carnivori. Nei nostri ambienti, inoltre, il grande problema è la perdita di gestione integrata dei territori che ha reso, ad esempio, il territorio più vulnerabile ai rischi idrogeologici, così come ad incendi più o meno dolosi. Di conseguenza, le superfici pastorali non vengono più utilizzate o sono mal gestite, con animali allevati quasi sempre non autoctoni e con genetiche avulse dal contesto. Assistiamo, inoltre, all’estendersi degli spazi urbani e degli insediamenti in aree sempre più ai margini dei parchi che assottigliano il necessario buffer di distanziamento tra città e spazio non edificato: elemento, quest’ultimo, che è tornato, tra l’altro, pericolosamente al centro del dibattito in questi ultimi mesi anche in ragione dei fenomeni di spillover indicati come l’origine più probabile della diffusione del COVID-19.
La questione, probabilmente, vista in questi termini oppositivi risulta mal posta, come cercheremo in modo più diffuso di mostrare ed articolare nell’appuntamento del prossimo 18 dicembre che vedrà la Rete Appia, Rete Italiana per la Pastorizia, protagonista di “Pastorizia sotto attacco”, una giornata di confronti scientifici ed interviste ad allevatori centrata in modo particolare proprio sulla relazione tra pastorizia e predatori nel quadro del Festival del Pastoralismo di Bergamo che quest’anno si svolgerà in modalità digitale.
Se le aree protette nascono come laboratori per una rimodulata convivenza tra aree abitate e ambiente naturale, oggi si sente la necessità di articolare il tema della “co-esistenza” tra specie in chiave più olistica e reticolare, senza cadere in facili semplificazioni dicotomiche, ma puntando ad un co-adattamento interspecifico nei contesti naturali condivisi che tuteli i predatori legittimando socialmente livelli tollerabili di rischio per le comunità umane e per gli animali allevati. I recinti, le stabulazioni forzate e persino i cani da difesa, che sono conseguenze dirette oggi della necessità di difesa dal predatore, in certi casi intaccano anch’essi la biodiversità, riducono gli spazi di libertà e pascolo e lo stesso benessere animale, oltre a ledere la libertà del pastore. Una gestione meno oppositiva delle rigide normative in merito potrebbe forse aiutare a ridurre l’insofferenza e la delusione per le mancate o tardive compensazioni da parte dei Parchi o delle stesse Amministrazioni Regionali e frenerebbe il senso di crisi per un’attività produttiva già profondamente messa in difficoltà da diversi fattori: il crollo del mercato della lana, gli accordi commerciali e le importazioni di carne e latte da altri paesi, il ritardo rispetto a quella multifunzionalità indicata da molti come la chiave di volta della sostenibilità del comparto agro-pastorale nel breve e medio termine. Sarebbe, ad esempio, interessante valutare in modo puntuale un confronto tra le perdite da predazione e quanto potrebbe essere integrato dalla valutazione economica della biodiversità salvaguardata e dei servizi eco-sistemici svolti dagli animali al pascolo e compararli con i valori eco-sistemici assolti dai predatori protetti.
Le aree protette, così come l’allevamento al pascolo, fanno in realtà parte di un comune sistema di tutela e monitoraggio virtuoso del territorio e perciò debbono essere salvaguardate ed incentivate entrambe. Se i parchi e le riserve rispondono alla necessità di protezione di particolari specie e/o microambienti, la pastorizia estensiva realizza quotidianamente un’attività di presidio e monitoraggio del territorio che risulta preziosa in termini di rigenerazione territoriale. Realizza altresì una forma di allevamento dai numeri non ipertrofici anche in termini di emissioni di gas serra, mentre produce proteine animali in maniera sostenibile, per l’ambiente e gli animali, e salutare per i consumatori: altro elemento che meriterebbe di essere valutato con attenzione e senza conteggi strumentali finalizzati ad un attacco frontale del comparto delle produzioni animali in genere. La pastorizia si presenta come implicito argine ad allevamenti e colture che portano all’omologazione degli alimenti prodotti ma anche dei territori e dei paesaggi, conservando e proteggendo la biodiversità, le particolarità zootecniche, i sistemi di pratiche, i saperi della trasformazione delle materie derivate che rappresentano il valore aggiunto di questo settore. Un comparto da più parti, non a caso, ritenuto cruciale – prima tra tutti la FAO – per la tutela e la sopravvivenza delle condizioni minime di vivibilità in alcuni gruppi ed un prezioso presidio per le aree più spopolate, che con la pastorizia rimangono vive e produttive. Già in passato le conoscenze esperte dei pastori hanno determinato, ad esempio, la selezione e preparazione di particolari linee di cani da guardiania – come l’abruzzese-maremmano o altri – che si caratterizzano da alcuni secoli ed ancora oggi come i più efficaci presidi contro gli attacchi da predazione. Oggi, oltre a ciò, la coesistenza può essere ispirata ad ulteriori conoscenze e tecnologie avanzate: con campagne informative adeguate, con una sapiente compartimentazione degli spazi, con forme di compensazione che si sottraggano alla farraginosità dei sistemi di retribuzione in denaro privilegiando i servizi, attraverso dotazioni tecniche e gestionali in grado di contribuire alla difesa (marcatori, nuove forme di protezione di facile impianto, forme di supporto e incentivo, gestione razionale delle aree di pascolo, ecc.). Al tempo stesso la difesa degli animali allevati deve porsi un obiettivo di compatibilità produttiva, economica e sociale nella vita dell’impresa per poter essere sostenibile sul piano aziendale e non obbligare gli allevatori a lasciare il campo, al di là dell’arricchimento in termini di biodiversità.
La pastorizia è infatti per definizione un sistema di meta-biodiversità. Infatti, essendo questa pratica culturale una forma importante di diversità, vive della biodiversità dell’ambiente in cui opera. Un pastore non può produrre in un ambiente degradato. Non è un caso, ripetiamo, se molti dei parchi naturali, in Italia ma anche nel resto del mondo, sono forgiati in aree di pastorizia.
Le aree protette, così come le attività di allevamento al pascolo, rispondono oggi a funzioni ed obiettivi indicativamente comuni: offrono servizi ecosistemici, contribuiscono alla tutela e rigenerazione degli ambienti montani e della biodiversità ma anche alle opportunità turistiche di certi territori anche se, sempre più spesso, i turisti vengono implicitamente tenuti a distanza dalle greggi e dalle mandrie al pascolo a causa dei rischi connessi alla presenza dei cani da guardianìa, andando con ciò a interrompere, tra l’altro, la relazione sana e l’interscambio anche sociale con il produttore di alimenti fortemente caratterizzati dal punto di vista territoriale.
Impostare la questione del lupo e degli animali al pascolo in termini schematicamente oppositivi – come sta accadendo in questi giorni nella polemica sullo spopolamento delle montagna, i danni da predazione e la tutela del lupo nelle montagne trentine (Direzione SAT in L’Adige 17/11/2020; Duccio Canestrini in L’Adige, 5/12/2020; Mauro Fezzi in L’Adige 6/12/2020) – riteniamo non porti rilevanti avanzamenti nella gestione della questione né risolve la serpeggiante conflittualità tra allevatori ed animalisti alimentata artatamente dalla pubblicistica: i primi tacciati di colpevole antropocentrismo estrattivista, i secondi costretti in uno stereotipo polemico che sarebbe erroneo liquidare con leggerezza.
Se i miti dell’antichità che fondavano l’orgoglio antropocentrico attraverso la demonizzazione del selvatico erano centrati sull’opposizione dicotomica tra lupo e pastore, già nel Quattrocento i fioretti di San Francesco ci propongono un racconto diverso delle possibili coesistenze tra il selvaggio e le comunità umane. Nel celebre racconto (Fioretto XXI) dell’incontro tra il Santo ed il lupo di Gubbio, Francesco si avvicina al lupo irruento e vorace con la proposta di un patto: un patto che garantisce al lupo sostentamento e gli chiede in cambio la sua mansuetudine. Il lupo, folgorato dall’accoglienza inerme, alza la zampa e pariteticamente stringe il patto col santo e con la comunità. Fino a morte “girerà per le strade della città”, non più perseguitato né scacciato dall’abbaiare dei cani, debitamente nutrito, ricompreso nel consesso civile che così sembra aver trionfato della sua selvaticheria e della sua irriducibile diversità. Il fioretto narra una storia di domesticazione del selvaggio che solleva qualche riflessione e persino qualche perplessità. Sappiamo come oggi esistano aziende prossime ad aree protette e parchi che nelle aree montane accantonano parti della loro produzione per nutrire i predatori che vivono nei pressi. Anche questa, secondo alcuni, è una soluzione controversa che sottrae dignità biologica al predatore, condizionandone il comportamento e predisponendolo a patologie connesse proprio alla sua progressiva domesticazione e prossimità eccessiva agli insediamenti ed alle aree di pascolo e coltivazione. Le scelte, come sempre, debbono fondarsi su saperi non pregiudiziali, ma competenti, capaci di tenere dinamicamente in contatto gli estremi delle polemiche e permettere loro di articolare patti possibili, fuori dal circo invalido delle pressioni mediatiche, delle semplificazioni ideologiche e degli interessi politici di tutte le possibili componenti.