Lo scorso 22 ottobre la suggestiva aula Magna del Dipartimento di Studi Linguistico-letterari, Storico-filosofici e Giuridici dell’Università degli Studi della Tuscia di Viterbo ha ospitato il convegno internazionale “Carne coltivata: etica del cibo del futuro“. L’evento ha offerto a tutti i partecipanti un’ampia panoramica sulle potenzialità, criticità e sfide poste da questa tecnologia emergente.

La “carne coltivata”, prodotta in laboratorio a partire da cellule animali (e quindi da animali veri, vivi e allevati nei tradizionali sistemi zootecnici), promette di rivoluzionare il nostro rapporto con il cibo, offrendo una soluzione alternativa agli allevamenti tradizionali e ai loro impatti ambientali. Ma sarà davvero così?

Molti degli autorevoli relatori che sono intervenuti hanno voluto evidenziare i presunti potenziali benefici di questa tecnologia, quali la riduzione delle emissioni di gas serra, la diminuzione del consumo di acqua e terreni agricoli, e la mitigazione dei rischi per la salute pubblica legati alle zoonosi. Inoltre, la “carne coltivata” è stata presentata come la risposta alle crescenti preoccupazioni etiche legate al benessere animale.

Il significato di “carne” e le implicazioni identitarie e culturali

Come è bene che accada, il convegno ha anche sollevato il velo su numerosi interrogativi e criticità sottesi a questa tecnologia emergente. Innanzitutto, è emersa con forza la necessità di una riflessione approfondita sul significato stesso di “carne”. Se da un lato la “carne coltivata” in termini equiparativi (pur non potendo soddisfare il nostro palato) potrebbe fornire gli stessi nutrienti della carne tradizionale, dall’altro la sua natura profondamente diversa solleva questioni identitarie e culturali. Come definire un prodotto ottenuto in laboratorio, che replica le caratteristiche nutrizionali (ma non quelle organolettiche) della carne tradizionale? È davvero corretto usare il termine carne?

Dall’enciclopedia Treccani. “CARNE” parte muscolare del corpo dell’uomo e degli animali. Dal punto di vista nutrizionale, il termine carne indica qualsiasi taglio proveniente dalle masse muscolari degli animali […]

Un altro punto cruciale riguarda la sostenibilità ambientale. Sebbene la produzione di “carne coltivata” prometta di ridurre l’emissione di gas serra rispetto agli allevamenti intensivi, il suo impatto ambientale complessivo non è ancora completamente chiaro. La produzione di energia necessaria ai bioreattori, la gestione dei rifiuti biologici e l’impronta di carbonio associata alla produzione dei reagenti sono tutti fattori che devono essere attentamente valutati nel tempo. Inoltre, come sottolineato dal Prof. Nicola Lacetera (Professore Ordinario dipartimento DAFNE Unitus) nel suo intervento, è fondamentale considerare il ciclo di vita completo del prodotto, dalla produzione delle materie prime alla distribuzione e allo smaltimento dei rifiuti.

Anche le implicazioni economiche e sociali della “carne coltivata” sono state oggetto di dibattito. A chi è diretta questa nuova tecnologia? Come si inserirà nel mercato alimentare esistente? Ci saranno conseguenze per gli allevamenti tradizionali? Facciamo alcune considerazioni per provare a rispondere a questi interrogativi non trascurabili.

Vegani e Vegetariani

Per i vegani, la “carne coltivata” non rappresenta una soluzione accettabile, poiché, sebbene si tratti di un prodotto innovativo, viene comunque ottenuta a partire da cellule animali. La filosofia vegana si basa su un rifiuto totale dell’uso degli animali per scopi alimentari, e ciò include anche l’idea di sfruttamento (anche se solo per la biopsia), che è percepita come intrinsecamente sbagliata. Pertanto, anche se la “carne coltivata” potrebbe essere vista come un modo per ridurre la sofferenza animale e l’impatto ambientale dell’allevamento tradizionale, i vegani potrebbero considerare la sua produzione come una continuità di pratiche che vanno contro i loro principi etici.

Onnivori

Gli onnivori, d’altro canto, possono approcciare la “carne coltivata” con una mentalità più aperta, soprattutto se il prodotto si dimostra competitivo in termini di prezzo e gusto rispetto alla carne tradizionale. Tuttavia, vi sono diverse sfide. La”carne coltivata” dovrà affrontare non solo l’accettazione gustativa (che al momento sembra ancora un traguardo lontano), ma anche preoccupazioni riguardanti la salute, la sicurezza alimentare e l’autenticità. Inoltre, i legami con la tradizione e la secolare cultura alimentare, renderanno difficile, se non impossibile, la transizione per molti onnivori. Pertanto, il successo commerciale della “carne coltivata” dipenderà da come sarà posizionata nel mercato e dalla sua capacità di convincere i consumatori della sua superiorità rispetto alle alternative convenzionali.

Flexitariani

I flexitariani, ovvero quei vegetariani “flessibili”, cioè poco convinti della loro scelta di non mangiare del tutto la carne (per cui se la concedono ogni tanto) rappresentano una categoria particolarmente interessante. Data la loro flessibilità alimentare, potrebbero essere interessati a sperimentare nuovi prodotti e a ridurre il consumo di carne tradizionale. La “carne coltivata” potrebbe essere percepita come un’alternativa più etica, e quindi potenzialmente integrabile nella loro dieta. In ogni caso, il prezzo e la disponibilità del prodotto rimarranno fattori determinanti nelle scelte di acquisto.

Alcune riflessioni per delineare la strada verso una coesistenza sostenibile

L’intervento del Dott. Pasqualino Santori (presidente dell’Istituto di Bioetica per la Veterinaria e l’Agroalimentare) ha sollevato importanti questioni etiche legate alla definizione stessa di “carne” e al nostro rapporto con gli animali. La “carne coltivata” vorrebbe rappresentare una soluzione etica, ma è fondamentale riflettere sulle implicazioni di una produzione alimentare basata sulla manipolazione delle cellule animali.

Raffaella Petrilli (Professoressa Associata dipartimento DISTU Unitus) ha affrontato la questione della normatività del linguaggio, sottolineando come il modo in cui descriviamo il cibo influenzi la nostra percezione e le nostre scelte di consumo. Una terminologia ambigua potrebbe fuorviare i consumatori e richiederebbe, invece, una regolamentazione stringente e una terminologia specifica per evitare l’equivoco che si tratti della “stessa” carne.

Maurizio Balistreri (Professore Associato dipartimento DISTU Unitus) nel suo intervento volutamente provocatorio dal titolo “Mangiare carne umana è morale?” ci ha invitato a riflettere su quanto la questione “carne coltivata” sfidi le nostre categorie mentali e ci costringa a ridefinire il nostro rapporto con il cibo.

Umberto Bernabucci (Professore Ordinario dipartimento DAFNE Unitus) ha proposto una visione condivisibilmente critica, sottolineando i limiti di questa nuova tecnologia e la necessità di considerare soluzioni più integrate e sostenibili, che tengano conto della biodiversità e dei sistemi agroalimentari locali.

Quello che dal convegno è emerso all’unanimità è la necessità di addivenire ad una regolamentazione chiara e trasparente del settore. È necessario quindi definire standard di sicurezza alimentare, tracciabilità e etichettatura che garantiscano la protezione dei consumatori e un’informazione sufficientemente adeguata.

La “carne coltivata”, in quanto tecnologia emergente, rappresenta una sfida affascinante e complessa. Le potenzialità di questa innovazione sono enormi, ma è fondamentale affrontarne le criticità e le incognite con un approccio multidisciplinare e attento alle implicazioni sociali, economiche e ambientali. Il convegno ha offerto un importante contributo a questo dibattito, stimolando la riflessione e la ricerca. Tuttavia, la strada verso un futuro di coesistenza sostenibile per entrambi i prodotti è ancora lunga e tortuosa.