Al villan non far sapere quanto è buono il formaggio con le pere è un proverbio molto noto, tanto da far dimenticare le verità che nasconde, come accade per tanti altri proverbi, espressione di una saggezza popolare che stiamo abbandonando. Un proverbio che ha già attirato l’attenzione di uno storico quale Massimo Montanari che gli ha dedicato un libro. Formaggio con le pere, perché? A parte il fatto abbastanza banale e ovvio che sapere fa rima con pere, e quindi formaggio e fave, e tanto meno mele o fichi, non ci stanno, formaggio e frutta un tempo erano simboli alimentari di due mondi diversi e distanti, e che tali dovevano rimanere.

Formaggi antichi cibi agresti

Nel passato di formaggi, come accade ancora oggi, ve ne erano di buoni, di meno buoni e talvolta anche di scadenti, come forse quello che Marco Valerio Marziale in un suo epigramma reputa degno di alimentare gli schiavi. Lo stesso Marziale però in altri epigrammi cita formaggi di qualità, che oggi definiremmo d’origine, tra cui il formaggio di Velabro (formaggio caprino affumicato in una zona di Roma ai piedi del Palatino dove si pratica l’affumicatura) e il formaggio prodotto dai Vestini, popolazione forte e rude di origine osco-sabella che con i loro greggi vive in montagna, in una vasta zona che comprende l’attuale Altopiano delle Rocche, la valle dell’Aterno (L’Aquila) e che arriva a toccare il Mar Adriatico all’altezza di Penne, e probabilmente Città Sant’Angelo. Nomina infine il formaggio trebulano e cioè di Trebula, ma quale delle tre Trebula? Alcuni ipotizzano si tratti di quella presente nell’entroterra casertano. In questo caso si potrebbe trattare di un formaggio a pasta filata, secondo la tecnica di lavorazione descritta da Columella, come il caciocavallo o la provola, che diventano più gradevoli al palato se fatti ammorbidire sulla brace o in acqua calda. I formaggi a pasta filata infatti costituiscono una produzione che è preminente ancora oggi nell’agro Casertano.

Nell’antichità il formaggio è associato all’idea di barbarie in un contesto pastorale e, in particolar modo, a uno stadio di arretratezza culturale oltre che sociale. Questo perchè la pastorizia precede l’agricoltura, posizionata ad un più alto livello di civiltà, e, di conseguenza, i prodotti della pastorizia sono ritenuti rudi e di un livello culturale inferiore rispetto ai cibi dell’agricoltura. Queste idee non sono proprie soltanto dei Romani ma anche dei Germani e di alcuni popoli italici: Cicerone definisce i Liguri duri at que agrestes, Livio denomina i Sanniti montani atque agrestes e di cultura pastorale sono i due popoli citati da Plinio come produttori dei formaggi universalmente più apprezzati a Roma. La rudezza dell’alimentazione a base di caseus è testimoniata anche nell’Historia Augusta.

È solo nel basso medioevo che la produzione dei formaggi non è più solo d’origine pastorale ovicaprina, ma è anche opera dei monaci che esercitano l’agricoltura nelle grance annesse alle Abbazie Cistercensi dove si produce un formaggio di latte bovino come espressione dell’agricoltura e che per questo non ha più una connotazione rustica. Inoltre, nel medioevo i formaggi sono uno degli alimenti dei pellegrini, perché di facile conservazione e trasporto, da mangiare con un poco di pane, e sono cibi permessi in tutti i giorni di magro.

Frutta cibo signorile

Nel passato, e soprattutto nel Medioevo e nel Rinascimento, i cibi assumono una connotazione che deriva dal luogo di produzione. Di bassissimo livello e infido è ritenuto il cibo sotterraneo, come le rape e altre radici, che per questo motivo è destinato agli strati più bassi della popolazione e ai contadini. Di medio valore è il cibo che cresce sopra la terra, come il frumento dal quale si ricava il pane destinato a nutrire la popolazione degli artigiani, dei soldati e la popolazione urbana. D’alto valore è la frutta che nasce vicino al cielo, che nel giardino dell’Eden nutre Adamo ed Eva, destinata alle classi sociali più elevate. Per questo motivo ogni residenza signorile e i migliori monasteri e conventi accanto all’orto hanno il frutteto.

Tra i diversi frutti, la pera è tra i più apprezzati. Gli antichi greci osservando le sinuose linee di questo frutto e gustandolo lo considerano un simbolo erotico e di fecondità, un simbolo della dea dell’amore. Le pere trionfano nei detti e nei proverbi, perché possono avere tante forme. Oggi esistono più di mille varietà di pere, ma già dai tempi dei Romani se ne contavano circa quaranta.

In araldica il pero è ritenuto simbolo di principe benefico e buon padre di famiglia, e in molti casi compare solo il suo frutto. Nella simbologia cristiana la pera è spesso associata alla Madonna e a Gesù per la sua dolcezza, paragonabile a quella della loro virtù. In alcuni dipinti Gesù bambino è raffigurato con in mano una pera, simbolo della vita, mentre abbandonata ai suoi piedi c’è una mela, simbolo anche del peccato compiuto da Adamo e Eva. I formaggi, invece, solo di rado sono raffigurati tra i doni che i pastori portano a Gesù nel presepio.

Formaggio e pera sulle tavole

Alimenti grossolani per uomini grossolani e fini per uomini fini. Lo stesso vale per le associazioni tra i cibi. Di conseguenza, molto pane e poco formaggio al villano che lavora e buon formaggio e frutta, soprattutto pera, per il signore o l’ecclesiastico che pensa. Quindi formaggio dei poveri e pera dei ricchi, e ognuno deve stare al suo posto, anche a tavola. Il villano o contadino deve quindi mangiare il formaggio, ma non la pera. Se un tempo il formaggio, spesso di non buona qualità, era dei poveri e la dolce frutta dei ricchi, era per una motivazione che troviamo codificata nei canoni alimentari del medioevo e rinascimento, quando i cibi erano classificati in caldi e freddi, secchi e umidi e via dicendo, e bisognava usarli in armonia anche alla qualità della persona e al suo stile di vita. Da qui il proverbio “Al villan non far sapere quanto è buono il formaggio con le pere”.

Associare il formaggio alla frutta ha anche altri significati e non è un caso che quando si costruisce la cucina borghese con i suoi canoni, il formaggio, questa volta di qualità, è associato alla frutta alla fine del pranzo, quando bisogna stimolare l’appetito con nuovi sapori e accostamenti. Il salato del formaggio contrasta infatti con il dolce della frutta, spesso anche associando il duro del primo con il tenero della seconda, in una tendenza con radici rinascimentali di un’armonia raggiunta attraverso gli opposti.

Questo non basta, perché non si deve dimenticare che latticini e frutta hanno antichissime radici depositate nel nostro inconscio alimentare di uomini mammiferi frugivori. Come mammiferi nel latte troviamo rassicuranti radici neonatali e infantili. Come frugivori nella frutta, della quale abbiamo quasi bisogno per talune vitamine come la C, troviamo ricordi inconsci delle specie che ci hanno preceduto e dalle quali discendiamo. Un’accoppiata rassicurante, ma un tempo non disponibile per tutti. I ceti abbienti, laici e religiosi, se ne sono quindi appropriati, emarginando gli altri, iniziando dai villani. Quest’accoppiata non è la sola possibile. Tra le tante piace ricordare quella dei salumi salati con la frutta dolce, primo tra tutti il prosciutto e melone o fichi. Sulla stessa linea gustativa vi è l’associazione dei formaggi con il miele o le marmellate.

 

Giovanni Ballarini, dal 1953 al 2003 è stato professore dell’Università degli Studi di Parma, nella quale è Professore Emerito. Dottor Honoris Causa dell’Università d’Atene (1996), Medaglia d’oro ai Benemeriti della Scuola, della Cultura e dell’Arte del Ministero della Pubblica Istruzione della Repubblica Italiana, è stato insignito dell’Orde du Mérite Agricole della Repubblica Francese. Premio Scanno – Università di Teramo per l’Alimentazione nel 2005, Premio Giovanni Rebora 2014, Premio Baldassarre Molossi Bancarella della Cucina 2014, Grand Prix de la Culture Gastronomique 2016 dell’Académie Internationale de la Gastronomie. 

Da solo e in collaborazione con numerosi allievi, diversi dei quali ricoprono cattedre universitarie, ha svolto un’intensa ricerca scientifica in numerosi campi, raggiungendo importanti e originali risultati, documentati da oltre novecento pubblicazioni e diversi libri. 

Da trenta anni la sua ricerca è indirizzata alla storia, antropologia e in particolare all’antropologia alimentare e anche con lo pseudonimo di John B. Dancer, ha pubblicato oltre quattrocento articoli e cinquanta libri, svolgendo un’intensa attività di divulgazione, collaborando con riviste italiane, quotidiani nazionali e partecipando a trasmissioni televisive. Socio di numerose Accademie Scientifiche è Presidente Onorario dell’Accademia Italiana della Cucina e già Vicepresidente della Académie Internationale de la Gastronomie.