Il mondo, come è sempre avvenuto e sempre avverrà, evolve sia nella tecnologia che nella cultura umanistica, coinvolgendo tutta la società in ogni angolo della Terra. Oggi questo avviene forse più rapidamente che in passato ma con le stesse regole e la stessa modalità.

Sappiamo come ormai la sanità umana e quella animale corrano sullo stesso binario, tanto che l’espressione “One Health” è diventata di uso comune.

La qualità della vita degli animali d’allevamento, che taluni chiamano riduttivamente benessere, e l’attenzione per l’ambiente e le sue risorse, sempre più pesantemente condizionano l’opinione che la gente ha dell’allevamento degli animali che producono cibo per l’uomo. Gli animali a cui è toccata la sorte di vivere nelle case delle persone, come i cani e i gatti, o di condividere con loro le attività sportive, come i cavalli, sono oggetto del complesso fenomeno antropologico dell’antropomorfizzazione, che spesso mette in deroga il principio di rispetto del naturale comportamento degli animali e della loro dignità.

Stanno poi avanzando a passi da gigante la cultura e l’attivismo animalista e vegano, che vorrebbero l’estinzione di ogni animale che produce cibo e forse, in futuro non tanto lontano, automi e robot  sostituiranno gli animali da compagnia, risolvendo così i problemi emozionali legati allo loro breve vita e all’impegno di curali e nutrirli. Se non si inverte la tendenza in atto, il futuro dell’uomo sulla terra sarà artificiale, e con esso il cibo e l’habitat che l’uomo crea a sua immagine somiglianza.

Quando l’attivismo vegano e quello animalista si scagliano sistematicamente e con aggressività contro l’allevamento “intensivo”, la medicina veterinaria della produzione animale non viene mai nominata o chiamata in causa, nel bene o nel male, perché per loro semplicemente non esiste ed è comunque collusa con gli “sfruttatori seriali degli animali”, ossia gli avidi allevatori. I veterinari che invece si occupano di cani e gatti lo fanno (secondo questa linea di pensiero) perché li amano, come se chi sceglie di essere un medico degli uomini non lo facesse per amore della medicina ma solo degli esseri umani.

Pratiche come la totale privazione della libertà individuale e di accoppiarsi liberamente (fino alla castrazione chirurgica), la selezione genetica per favorire tratti che si avvicinino al viso umano e l’intensa consanguineità, non vengono classificati dalla collettività come disumane e crudeli, e spesso vediamo i veterinari di pet adorati nelle trasmissioni televisive, nel web o sui giornali.

Nei luoghi in cui si studia per diventare medico veterinario, ossia nei 14 Atenei italiani dove sono attivi questi corsi di laurea, negli stessi banchi e ad ascoltare le stesse lezioni troviamo chi vuole fare il veterinario perché “ama” gli animali, chi pensa che contribuire a produrre cibo sano e disponibile per tutti nel rispetto della dignità degli animali sia un’attività eticamente eccelsa, chi ama la medicina in quanto tale e chi vede  nella sanità pubblica una missione e non  solo un bel posto fisso da sognare. Queste sono ovviamente generiche semplificazioni utili a spiegarsi.

Una volta laureati i veterinari possono iscriversi agli ordini professionali e fare un’infinità di lavori, spesso molto differenti gli uni dagli altri. Questa anomalia, che sembra non interessare a nessuno, sta creando gravi problemi non tanto alla sanità pubblica ma agli allevatori, e più in generale al mondo produttivo. Basta vedere i programmi dei corsi d’aggiornamento proposti ai veterinari che si occupano di animali da reddito per capire a cosa si dà la priorità.

Il supporto gratuito e rischioso che stanno dando i buiatri liberi professionisti alla sanità pubblica è sicuramente encomiabile, ma non può durare a lungo perché il rapporto tra veterinari pubblici e privati, e soprattutto il livello di rischio dei secondi, sta evidenziando una grande criticità. E’ bene che la FNOVI inizi a chiedersi se il percorso didattico a ciclo unico dei dipartimenti di veterinaria sia quello che serve e non quello che fa comodo. Sarebbe bene che FNOVI, oltre a questioni di sanità pubblica si concentri anche su chi si occupa di food animal, non solo come supplenti del SSN pagati dagli allevatori. E’ bene che gli Ordini professionali e le Società scientifiche si occupino  anche di come riequilibrare i rapporti tra sanità pubblica e privata, e di come recuperare concretamente la reputazione persa dalla veterinaria. L’attuale gestione del percorso di studio e della professione dei medici veterinari sta creando una pericolosa crisi d’identità di questa professione. Sanità pubblica e privata si mescolano senza una logica in un sistema deresponsabilizzante che non crea costi per lo Stato e la progressiva radicalizzazione degli studenti “animalisti” sta ghettizzando negli Atenei chi vuole occuparsi di animali da reddito.

Mettere sugli stessi banchi di scuola chi vuole lavorare con gli allevatori con chi gli allevatori li vorrebbe estinti è un enorme ostacolo per la qualità della didattica.

Ruminantia vuole aprire una discussione costruttiva su l’argomento, affinché la veterinaria che si occupa di food animal riacquisti la dignità perduta e sia la migliore “stampella” che gli allevatori possano avere, oltre ad essere il primo garante della qualità della vita degli animali d’allevamento al netto delle anacronistiche check-list che via via si diffondono.