La selezione genetica delle bovine da latte sta marciando con passi da gigante. Basti pensare che la frisona italiana controllata da ANAFIBJ è passata dal produrre nel 2014 una media procapite di 9. 472 kg di latte a farne 10.802 kg del 2023, con incremento di ben il 14%. Questa maggiore produzione è stata anche accompagnata da un miglioramento delle concentrazioni di grasso e proteine, che sono cresciute nel periodo considerato, rispettivamente, dello 0.19% e dello 0.09%. Si stima che negli USA negli ultimi 40 anni il 35-50% dell’incremento produttivo delle bovine da latte sia da attribuire alla nutrizione e alla gestione, e la restante quota al miglioramento genetico.

Scorrendo i dati generati dai lattometri istallati sugli impianti di mungitura o quelli raccolti dalle ARA, e soffermandosi sulle produzioni individuali delle bovine “fresche” e non gravide, si rimane ormai attoniti e in chi è pratico di fisiologia e biochimica prevale uno stato d’incredulità per le straordinarie capacità di questi animali.

Visti gli assetti ormonali e metabolici delle bovine da latte, i nutrienti apportati dalla razione non servono più come era una volta a stimolare (spingere) la sintesi di latte ma a restituire energia, amminoacidi, acidi grassi, minerali e vitamine utilizzati ed escreti con la produzione di latte. Le bovine hanno imparato a fare ampio ricorso nelle prime settimane di lattazione alle scorte di glucosio (glicogeno), amminoacidi (proteine labili) e acidi grassi (tessuto adiposo) che hanno accumulato alla fine della gravidanza precedente ma nonostante tutto ciò, da fresche, sono in uno status di bilancio energetico (NEBAL) e amminoacidico negativo (NABAL). Queste carenze secondarie sono diventate ormai para fisiologiche anche per i donatori di gruppi metilici (NMDB), alcuni macro e micro-minerali e alcuni acidi grassi polinsaturi a lunga catena (PUFA e MUFA).

I nutrizionisti sanno bene che con la dieta non riusciranno a restituire tutti i nutrienti che l’animale spende nelle prime settimane di lattazione, e che tutto quello che possono fare con la razione è ridurre l’ampiezza dei tanti bilanci negativi tipici di questa fase del ciclo produttivo. La gravità (ampiezza) e il protrarsi (durata) delle carenze nutritive ha un grave impatto negativo sulla salute e la fertilità delle bovine, e quindi sulla loro longevità funzionale.

Attenzione alla salute ruminale

Le vacche da latte sono, e sempre saranno, ruminanti; esiste quindi un limite fisiologico invalicabile che è la salute ruminale. E’ ormai chiaro quando ci si deve fermare nel concentrare le razioni, ossia nell’aumentare i concentrati a discapito degli alimenti fibrosi ruminabili.

Diete con un’elevata quota di amidi, zuccheri e proteici, e quindi più povere di fibra ruminabile (peNDF), inducono nelle bovine sicuramente un maggiore tasso di crescita del microbioma ruminale e una maggiore produzione di acidi grassi volatili ma l’abbassamento del pH ruminale conseguente porta ad una riduzione dell’ingestione non risolvendo di fatto il problema dei bilanci nutritivi negativi. L’acidosi ruminale derivante crea le condizioni per lo sviluppo dell’endotossicosi.

La strada migliore da percorrere è somministrare razioni non eccessivamente concentrate che garantiscano una sana attività ruminale, e l’adozione di strategie atte a stimolare l’ingestione di sostanza secca giornaliera (Dry Matter Intake). Il principio su cui si dovrebbe puntare è che è meglio che una bovina ingerisca giornalmente una grande quantità di una dieta che non altera la fisiologia ruminale e che non riduce troppo il pH del rumine piuttosto che una razione molto concentrata che inevitabilmente causa una ridotta ingestione.

Con le attuali conoscenze della gestione della nutrizione dei ruminanti, le tecnologie adottate per costruire le stalle, la gestione degli animali e la digeribilità ormai sempre più elevata dei foraggi è ragionevole puntare ad un’efficienza alimentare 1.6 (Feed efficiency). Ciò significa, in pratica, che con un’ingestione media di oltre 30 kg di sostanza secca si può garantire il supporto nutritivo (restituzione) per produzioni di poco inferiori ai 50 kg di latte.

Si deve considerare che circa un quarto delle frisone italiane supera la produzione di 40 kg, e che nelle stalle molto produttive questa percentuale può raggiungere il 50%. Sta ormai diventando una prassi dare priorità alla raccolta d’informazioni relative a quanto stanno effettivamente mangiando gli animali al giorno di sostanza secca, sia nell’unifeed che negli autoalimentatori.

Le bufale e alcune razze di pecore e di capre da latte stanno migliorando le loro performance produttive, per cui quello che abbiamo detto finora per le bovine da latte è estendibile anche a tutti gli altri ruminanti da latte. Questi animali si sono evoluti per sfruttare al meglio i vantaggi offerti dal potere scegliere cosa mangiare del pascolo, dei cespugli e degli alberi, evitando d’ingerire piante velenose, alimenti alterati o poco nutrienti.

Per fare questo, al pari di molte specie animali, i ruminanti utilizzano principalmente quattro dei cinque sensi, ossia la vista, l’olfatto, il gusto e il tatto.

L’unifeed è un vantaggio ma va gestito con attenzione

Per semplificare la gestione degli allevamenti e offrire una razione stabile nelle 24 ore e nei giorni in specie come quella bovina e bufalina, ma anche negli allevamenti di capre e pecore, si adotta ormai principalmente l’unifeed o TMR come tecnica di somministrazione, delegando all’allevatore e al nutrizionista il compito di selezionare gli alimenti più adatti agli animali. Disattenzioni sulla qualità degli alimenti e una non profonda conoscenza sulle preferenze alimentari degli animali possono però rappresentare un ostacolo al raggiungimento dell’obiettivo di raggiungere un’ingestione ritenuta ottimale.

Abbiamo prima affermato che lo scopo primario è quello di stimolare gli animali, soprattutto in lattazione, ad ingerire più sostanza secca possibile per mitigare l’ampiezza del bilancio energetico e amminoacidico negativo d’inizio lattazione. Una delle strade percorribili è quella di evitare alimenti poco appetibili per odore, sapore e aspetto, oppure che vengono associati dagli animali a pregressi disturbi digestivi.

E’ altamente consigliabile, quando si nota un’insufficiente ingestione di TMR, somministrare agli animali i singoli alimenti per verificare se da soli sono mangiati o meno, e a quale velocità. Nel fare questo, magari utilizzando animali non in lattazione, si può anche notare il modo con cui questi si rapportano con l’alimento somministrato. Le bovine da latte prima guardano il singolo alimento o la razione, anche se non sappiamo quanto ciò sia importante, poi lo annusano e, se non ci sono odori che ne scoraggiano il consumo, lo assaggiano. A questo punto, se non ci sono problemi, lo mangiano con più o meno avidità. Lo stesso fanno con i mangimi, siano essi in farina o pellettati, anche se quest’ultimo stato fisico conferisce ai concentrati una migliore appetibilità e velocità d’ingestione.

Odori e sapori contano

Poca è stata la ricerca fatta in questi anni relativamente a quali siano gli odori e i sapori più graditi dalle singole specie che compongono il gruppo dei ruminanti domestici, ma qualche dato certo comunque c’è. Sappiamo che i ruminanti hanno una buona dotazione di papille gustative in grado di identificare il sapore dolce, salato, amaro, acido e umami.

L’avvento della mungitura automatica (AMS), associata com’è ai somministratori automatici di mangime (self-feeder), ha risvegliato l’interesse vero l’utilizzo di aromi e appetibilizzanti in grado di invogliare le bovine a transitare di più nei robot di mungitura, anche se da quello che sappiamo non sono state ancora approntate ricerche più approfondite di quelle passate o non sono state mai divulgate.

Normalmente, con o senza aromi, un mangime prodotto con materie prime sane e notoriamente appetibili viene ingerito al ritmo di 200 – 300 grammi al minuto. Considerando che una mungitura dura mediamente 7 minuti, ciò può comportare un’assunzione di 1.5–2 kg di mangime quando alla macchina mungitrice è associato un’auto alimentatore come avviene con i robot di mungitura.

Gli aromi di solito non vengono aggiunti alla TMR ma tuttalpiù nei mangimi per renderli più attraenti sia per gli allevatori che in parte per gli animali. Per appetibilità si intende la percezione edonistica di uno specifico alimento, risultante non solo dalle sue caratteristiche organolettiche ma anche dallo stato interno del soggetto e dalla sua esperienza associativa individuale degli effetti post-ingestivi del cibo. Si possono utilizzare aromi che simulano l’anice, il fieno greco, il miele, l’arancia, il timo, la melassa e la vaniglia, solo per citare quelli di base più diffusi. La dose d’impiego nei mangimi è all’incirca dello 0.025%. Dalle ricerche effettuate sembrerebbe che l’aroma vaniglia e fieno greco siano molto graditi, mentre i meno efficaci sono l’arancia e l’anice.

Più complessa è la conoscenza del senso del gusto nei ruminanti. Il gusto è uno dei 5 sensi che dà agli animali la consapevolezza del loro ambiente, soprattutto per la selezione del cibo. E’ importante perché è l’ultimo senso in uso prima della deglutizione del cibo. Le papille gustative sono presenti sulla lingua, nel palato, nell’oro-faringe, nella laringe, nell’epiglottide e nella parte superiore dell’esofago.

A rendere più complicata la ricerca di campo ci sono sostanzialmente due fattori. Il primo è quello che un determinato aroma potrebbe essere associato con qualche disturbo digestivo occorso agli animali utilizzati dalla ricerca, fatto che lo renderebbe l’aroma e il cibo in cui viene inserito poco o per nulla appetibile (anzi, potrebbe dare un senso di disgusto). La seconda, che è quella più importante, è che alcuni elementi del gusto hanno un valore segnaletico, nel senso che la loro ricerca o rifiuto sono legati a specifiche esigenze metaboliche o di difesa dell’organismo. I bisogni omeostatici non sono l’unica forza che condiziona il comportamento alimentare; anche l’edonismo, infatti, lo può influenzare.

L’attrazione che può esercitare il gusto salato dipende dallo stato metabolico minerale in cui si trova l’individuo o l’intero allevamento. L’amaro è spesso associato alla presenza di tossine in un alimento, anche se i bovini hanno meno recettori per questo gusto per cui possono essere più tolleranti. Il gusto dolce richiama la presenza di zuccheri, e più in generale di carboidrati non strutturali, ed è considerato positivo nei bovini e nei caprini mentre non lo è negli ovini. Il gusto che genera maggiore consenso è l’umami, che è associato con le proteine tramite il glutammato che ha uno spiccato valore edonico positivo e uno segnaletico per i cibi proteici. Il gusto aspro è dato dagli acidi presenti nelle piante come il tartarico, il lattico, il citrico, il malonico e l’ossalico. L’acido acetico e quello lattico sono presenti negli alimenti insilati e risultano particolarmente graditi dalle pecore, ma più in generale da tutti i ruminanti.

La vista è la meno utilizzata. I ruminanti sono bi-cromatici e sono sensibili alla luce verde-giallastra e a quella viola-bluastra. Le pecore discriminano tra oggetti di diversa luminosità. La luminosità dell’erba è infatti direttamente proporzionale al suo contenuto proteico.

Conclusioni

Serve una maggiore intensità di ricerca per superare gli effetti collaterali negativi che possono avere il TMR e i mangimi. Ottenere un elevato livello d’ingestione è nell’allevamento dei ruminanti da latte un importante fattore di successo. La profonda conoscenza dell’appetibilità dei singoli alimenti e degli effetti negativi che possono avere le loro alterazioni è un tipo di competenza importante dei nutrizionisti.

Gli aromi e gli appetibilizzanti possono avere un ruolo importante nella gestione dei bilanci negativi di inizio lattazione.