Se cercate in rete “Azienda Agricola Scaglia” trovate un sito molto curato che in alto, al centro di ogni pagina, presenta un bel logo tondo e rosso con il payoff “Allevatori da sempre”. Questo perché i tre fratelli titolari, Graziano, Paolo e Mauro, a chiunque gli chieda di raccontare la loro storia iniziano dicendo che sono allevatori da sempre, perché portano avanti l’attività che il loro bisnonno avviò nel 1931, quando arrivò, da mezzadro, nell’attuale cascina di Rivoli. Di cambiamenti ce ne sono stati tanti in questi 93 anni, solo una cosa è rimasta uguale ovvero la scelta di allevare bovini di razza Piemontese.

Le caratteristiche morfo-funzionali di questi animali le avevamo illustrate nel video “Quando una vacca “Piemontese” è bella?” realizzato con l’aiuto di Guido Garnero, responsabile valutazioni morfologiche e mostre per ANABORAPI, e nella nostra scheda “Vi raccontiamo le razze: la Piemontese“, pubblicata sulla rubrica “Vi raccontiamo le razze”. Per chiudere un po’ il cerchio abbiamo ritenuto interessante avere un confronto con chi alleva questa razza, e abbiamo individuato nell’azienda agricola Scaglia un esempio concreto di filiera corta e soprattutto 100% Piemontese!

Ci troviamo in provincia di Torino, più precisamente a Rivoli, con lo sfondo delle Alpi Piemontesi e in una posizione strategica per quel che riguarda il contatto con i consumatori, in quanto la frazione è attraversata dal celeberrimo corso Francia, il corso rettilineo più lungo d’Europa che passa per tre differenti comuni: Torino, da cui parte, Collegno e Rivoli. Ad aprirci le porte dell’azienda c’è Graziano, il responsabile del settore commerciale, che inizia il suo racconto parlandoci un po’ delle scelte fatte in questi anni.

«L’obiettivo che abbiamo sempre perseguito in azienda è stato quello del miglioramento continuo rivolto alla qualità, alle produzioni, alla genetica e al management. La scelta della razza Piemontese è stata fatta da nostro nonno, che da subito ha puntato sulla produzione della carne collaborando con l’ANABORAPI, di cui è stato per anni presidente, e sposando la tipologia di allevamento con linea vacca-vitello. Per molti anni abbiamo avuto la stazione di monta naturale, agli inizi degli anni ’60 è stata costruita la stalla libera all’aperto e ci siamo avvalsi di diverse collaborazioni, tra cui quella con l’Università di Torino con cui tuttora cooperiamo. Negli anni allevare la Piemontese in questa zona si è rivelata una scelta vincente, perché è un animale che si adatta molto bene al nostro ambiente».

Attualmente come è organizzato il vostro allevamento?

«Abbiamo tuttora la linea vacca-vitello, con circa 140 fattrici ricoverate in una stalla all’aperto insieme ai loro vitelli per i primi sei mesi. Le asciutte vengono invece tenute in un pascolo recintato di 30.000 mq dove vanno a pascolare, con un’opportuna integrazione in estate quando c’è meno erba disponibile. In totale abbiamo circa 50 ettari, la maggior parte dei quali riconvertiti a pascolo, e la restante parte in rotazione orzo/mais con i quali siamo più o meno autosufficienti per le materie prime. Dopo i 6 mesi i vitelli vengono spostati nelle strutture da ingrasso dove permangono fino ai 14 mesi, quando raggiungono i 650 kg circa. Da circa 15 anni utilizziamo solo materie prima nostre o prodotte da agricoltori vicini. In totale abbiamo circa 450 animali tra grandi e piccoli».

Secondo lei quali vantaggi ci sono nell’allevare Piemontese per produrre carne?

«Sicuramente per il nostro territorio questa razza rappresenta il giusto connubio con il territorio circostante. Uno studio interessante fatto dal Coalvi, il Consorzio di Tutela della Razza Piemontese di cui facciamo parte, ha, per esempio, dimostrato che il 90% delle aziende che allevano Piemontese sono virtuose, perché sono strutturate in un certo modo, presentano coltivazioni arboree a delimitare i campi, allevano animali in funzione del foraggio che riescono a produrre, e hanno un carico di bestiame per ettaro molto basso (per consultare i dati del bilancio di sostenibilità clicca QUI).

Tornando alla vostra organizzazione, quali sono stati i principali cambiamenti introdotti negli anni?

«Nel 1993 avevamo un totale di 150 capi e il margine di guadagno si era talmente ridotto che ci siamo fermati a riflettere su quali strategie adottare. L’idea è stata quella di accorciare il più possibile la filiera. Con i miei fratelli ci siamo suddivisi le mansioni, ed abbiamo deciso che io sarei andato ad imparare l’arte della lavorazione della carne da alcuni macellai della zona. Per tre anni mi sono formato presso quattro diverse realtà; abbiamo letteralmente investito sulla mia formazione come fosse un master universitario nell’ambito del quale non percepivo stipendio ma ho appreso tutti gli strumenti necessari per lavorare in proprio. Una volta pronti abbiamo aperto la nostra macelleria aziendale con annesso punto vendita, facendo però una cosa un po’ diversa dalle altre, ovvero costruendo anche un nostro piccolo macello aziendale, che negli anni abbiamo trasformato in struttura a bollo CE».

Siamo quindi di fronte ad un esempio di filiera veramente chiusa, dove l’animale trascorre tutta la sua vita nell’allevamento dove è nato, mantenendo una situazione di gruppo ed evitando qualsiasi tipo di stress legato al cambiamento di ambiente o anche solamente al trasporto verso il macello. La ritenete una scelta consigliabile?

«Assolutamente sì. Innanzitutto, per i nostri animali, e poi anche per le garanzie che riusciamo a dare in tal modo ai consumatori. Esternalizzare delle fasi del processo produttivo comporta necessariamente un minor controllo; invece, in questo modo noi riusciamo a seguire per tutto il percorso il prodotto che offriamo. Pensate che per la stessa ragione, negli anni abbiamo iniziato ad allevare anche polli, suini e conigli. Perché la richiesta era molta e volevamo mantenere un’offerta tutta interna

Quindi oltre ad aver chiuso completamente la filiera avete anche diversificato con altre specie, quali altre innovazioni ci sono state in questi trent’anni?

«Considerate che in macelleria sono partito da solo e adesso sono affiancato da otto macellai, e questo nel tempo ci ha messo un po’ di pensiero, perché gravitava tutto su un’unica cassa. In molti ci hanno proposto di aprire un agriturismo, ma sinceramente nessuno di noi aveva la preparazione da cuoco e quindi ci saremmo dovuto affidare a qualcuno e tornava il tema di esternalizzare il lavoro. Finché nel 2008, un amico, cliente della macelleria, ha lanciato l’idea di fare insieme un hamburgeria mettendoci in società e affidando il lavoro a sei persone che avrebbero avuto esclusivamente il compito di cuocere i prodotti preparati da noi, friggere delle patate preparate fresche e somministrare birra di un’azienda sempre di zona. Il nome che avevamo scelto era “Solo buono” declinato in dialetto piemontese, ma abbiamo prontamente avuto problemi con una nota catena di fast food, e così siamo stati costretti a modificarlo nell’attuale M**Bun. Il primo locale lo abbiamo aperto nel 2009 e devo dire che il successo non ha tardato ad arrivare, tanto che nel 2011 abbiamo aperto il secondo, nel 2013 il terzo e quest’anno siamo al quarto. Nel mezzo di questa esperienza, dal 2015 abbiamo avviato anche l’ e-commerce, ma devo ammettere che inizialmente abbiamo sbagliato completamente format, perchè il sito richiedeva di inserire tantissime informazioni su tagli e porzioni di carne ed il cliente probabilmente era più confuso che aiutato. Nel 2020 abbiamo completamente riorganizzato il sito e tra il restyling e la pandemia devo dire che ha iniziato a prendere piede molto bene anche questo canale.»

Quale è la mission che racchiude M**Bun?

«Proponiamo alimenti semplici, fatti solamente con i nostri prodotti, o quelli di aziende vicine, utilizzando pochi ingredienti esclusivamente freschi. Non effettuiamo la cottura su piastra ma solamente al forno perché decisamente più salutare, e non abbiamo panini con doppie porzioni di carne perché riteniamo che non ci sia necessità di spingere le persone ad esagerare nel consumo, e non sia neanche corretto».

Prima di salutarci le vorrei chiedere una riflessione sul panorama generale in cui versa il settore della carne, attualmente vessato su più fronti. Temete che ci possano essere ripercussioni negative sulla vostra attività?

«Produrre carne non è mai stato semplice, pensiamo solo alla mucca pazza, l’influenza aviaria, la peste suina; perciò, la crisi del settore non è una novità, è qualcosa da gestire e tener presente nelle scelte da fare. Per chi alleva qualità, però, ci sarà sempre un bello spazio, perciò va bene anche produrre meno, l’importante è che ci sia più margine