Abstract

Implicazioni

Introduzione

Sistemi della filiera della carne, produttività e riproduzione

Strategie per diminuire l’impronta di carbonio dell’allevamento bovino

Sistemi di allevamento agroecologici per la produzione di carne bovina: ritorno al futuro

Ruolo del consumatore all’interno della filiera della carne bovina

Conclusioni

Riferimenti

 

Abstract

Il consumo globale, in particolare nei paesi in via di sviluppo, e la produzione di carne bovina sono in continuo aumento e ciò richiede al settore carne di migliorare le proprie performance e di ridurre l’impatto ambientale della filiera di produzione. Dato che il miglioramento dell’efficienza e gli effetti maggiori si verificano a livello di allevamento, è opportuno concentrarsi sulla redditività e sulla sostenibilità ambientale di queste aziende. In molte aree del mondo, la produzione di carne bovina è economicamente e socialmente rilevante perché rappresenta una parte significativa della produzione agricola e un’attività economica di vitale importanza nei distretti montani e collinari di molte regioni, dove esistono poche alternative per altre tipologie di produzioni. Visto l’importante ruolo nell’economia agroalimentare mondiale, il futuro del settore della carne bovina è legato alla riduzione degli impatti ambientali (principalmente mediante l’adozione di pratiche di mitigazione agro-ecologica) e al contemporaneo miglioramento delle performance produttive e della qualità del prodotto. Questa review analizza le soluzioni tecniche e di gestione attualmente disponibili per incrementare l’efficienza della filiera della carne bovina e, al contempo, per ridurre i suoi effetti a livello ambientale, in risposta al crescente aumento delle preoccupazioni e della consapevolezza da parte dei cittadini e dei consumatori.

Implicazioni

I sistemi di produzione della carne bovina giocano un ruolo significativo nell’economia agroalimentare globale. Il futuro di questi sistemi dipende fortemente dalla loro capacità di migliorare la propria sostenibilità in termini di impatto ed efficienza ecologica. Alcune tecnologie sono pronte per essere applicate al fine di migliorare il settore della carne bovina a tutti i livelli della filiera produttiva. Pertanto, le conoscenze tecniche e scientifiche possono favorire il futuro della filiera della carne bovina in risposta all’aumento della consapevolezza dei cittadini e dei consumatori.

Introduzione

La produzione mondiale di carne bovina è aumentata costantemente nell’ultimo mezzo secolo, con un tasso medio annuo dell’1.59%, raggiungendo i 67.354 milioni di tonnellate nel 2018; gli andamenti temporali lineari, quadratici e cubici prevedono un ulteriore aumento della produzione che andrà dai 69 agli 89 milioni di tonnellate nel 2030 (Fig. 1). Questa tendenza fa parte di una continua crescita globale della disponibilità annuale di carne registrata nello stesso periodo, guidata dall’aumento del consumo di tutte le categorie di carne a livello mondiale (Fig. 2). Tuttavia la specifica dinamica della disponibilità di carne mostra che, dalla prima posizione negli anni Sessanta, all’inizio di questo secolo la carne bovina è scesa al terzo posto come alimento più consumato (8.8 kg/persona nel 2018); d’altronde la carne suina, che da cinquant’anni domina il consumo individuale, è stata recentemente sorpassata dalla carne di pollame (rispettivamente 15.8 vs 16.7 kg/persona), che diventerà di gran lunga la tipologia di carne più consumata al mondo assicurandosi così il primo posto.

Figura 1. Produzione mondiale di carne: serie temporali lineari (blu), quadratiche (nero) e cubiche (rosso). (elaborazione su FAOstat data, 2020).

Figura 2. Presunto consumo individuale di manzo, pollo, suino e di carne totale (in kg per persona per anno): serie legami quadratici (elaborazione su FAOstat data, 2020).

Ovviamente questa previsione non tiene conto dell’impatto a breve termine della pandemia di Covid-19 che, come afferma l’outlook 2020-29 OCSE-FAO (2020), ”è incerto, ma si prevede che i modelli di produzione (inclusa sia la macellazione che la lavorazione) e di consumo di carne, in particolare quelli dei servizi di ristorazione, ne risentiranno” e nemmeno quello della “produzione di carne suina [che] rimarrà contenuta nei primi cinque anni del periodo di previsione a causa delle epidemie di PSA, in particolare in Cina e Vietnam”. Il relativo calo della disponibilità di carne bovina per il consumo umano rispetto alle altre carni, espresso come rapporto tra produzione e popolazione mondiale, è apparso una tendenza marcata negli ultimi quattro decenni. Tale andamento negativo potrebbe essere dovuto principalmente alla minore produttività dell’industria della carne bovina rispetto a quella delle altre specie animali allevate sempre per la produzione di carne. Infatti, rispetto ad altre specie più prolifiche alla macellazione, i suini moltiplicano di 10-15 volte il peso vivo riproduttivo (Reproductive Live Weight (RLW), kg di femmina da riproduzione e di rimonta che viene allevata), i polli di quasi 100 volte mentre, nel caso dei bovini, questo indicatore è molto al di sotto rispetto al numero dei parti. Utilizzando i dati di FAOstat (2020) e ipotizzando su scala globale un peso corporeo medio di 250 kg per i bovini, di 70 kg per i suini e di 1.72 kg per i polli ed includendo la biomassa degli animali in riproduzione, in crescita e all’ingrasso, la produzione media stimata di carne (kg di carcassa prodotta per kg di peso corporeo mantenuto) per i bovini (0.181 kg/kg) è inferiore di un ordine di grandezza rispetto a quella dei suini e dei polli (rispettivamente 1.765 e 3.188) (Tabella 1).

Tabella 1. Produzione globale della filiera della carne bovina rispetto a quella dei suini e del pollame (elaborazione su FAOstat, 2020).

SpeciesHead (miles)Meat
(kilotons)
Animal slaughtered
(miles)
BW/head
(kg)
BW total
(kilotons)
Meat/BW
(kg/kg)
Head slaughtered/head
maintained
Meat for humans use (kg/
person)
Cattle**1 489 74467 354302 128250372 4360.181 0.2038620
Pig978 332 120 8811 484 4937068 483 1765151715.47
Poultry**23 212 565127 29868 785 221 1.7239 925 3188296316291
*Human population estimate at September 2020 is 7 814 million of heads (Worldometer, 2020).
** Cattle also produce milk and poultry also produce eggs.

Pur non potendo in alcun modo raggiungere le performance delle altre specie, il miglioramento dell’efficienza riproduttiva e produttiva è il presupposto per una filiera della carne bovina redditizia e sostenibile dal punto di vista ambientale. È indiscusso che l’intensificazione di processi che prevedono elevate produzioni per unità animale mantenuta è il principale fattore chiave della sostenibilità delle produzioni animali (Pulina et al., 2017) dal punto di vista dell’impatto ambientale, come dimostrato per i GHC e l’impronta idrica (in una vasta letteratura, Mekonnen et al., 2019), cosa che non deve essere separata dagli scopi economici (Åby et al., 2013). Tra le recenti analisi e prospettive pre-COVID sulla filiera della carne bovina fatte dall’Asian-Australasian Journal of Animal Science (Smith et al., 2018), vale la pena considerare quelle Europee (Hocquette et al., 2018), Statunitensi (Drouillard, 2018), Cinesi (Zi Li et al., 2018) e Australiane (Greenwood et al., 2018); un’approfondita analisi delle strategie per migliorare la produttività del settore dei bovini da carne è stata pubblicata da Terry et al. (2021). In molte aree del mondo, la produzione di carne bovina è economicamente e socialmente rilevante, perché rappresenta una parte significativa della produzione agricola (vedi Materiale Supplementare S1). Rappresenta un’attività economica vitale nei distretti montani e collinari di molte regioni, dove esistono poche alternative per altre produzioni. D’altra parte, nonostante la crescente vulgata che dipinge la produzione di carne bovina come la più bassa produzione di proteine e la più dannosa per l’ambiente tra gli alimenti di origine animale, un quantitativo sempre maggopre di letteratura promuove parametri che mettano a confronto l’efficienza della produzione di carne, tenendo conto del tasso di conversione degli alimenti edibili per l’uomo nelle proteine di origine animale e presenta una nuova classifica dove la carne bovina appare al livello più elevato di convenienza per l’utilizzo di queste fonti alimentari (Mekonnen et al., 2019; Terry et al., 2021). Anche se le razze specializzate rappresentano la principale fonte di carne bovina, una quota significativa proviene dalle mandrie da latte, che contribuiscono in termini di manzi da latte all’ingrasso, vacche riformate, manze all’ingrasso e vitelli incrociati ottenuti da vacche da latte inseminate con seme di bovini da carne (vedi Materiale Supplementare S2). Nell’UE, dove i due terzi delle mandrie di vacche sono da latte, il mercato delle carni bovine è influenzato dalle dinamiche di questa tipologia di bovini (Commissione europea, 2018). Poiché la produzione di carne bovina gioca un ruolo importante nell’economia mondiale del settore agricolo e alimentare, il suo futuro è legato alla riduzione degli impatti ecologici e al contemporaneo miglioramento delle performance produttive (Scollan et al., 2011). Questa review analizza le soluzioni tecniche e gestionali attualmente disponibili per incrementare l’efficienza della filiera della carne bovina e, al contempo, ridurne gli impatti ambientali in risposta alle crescenti preoccupazioni ed alla consapevolezza dei cittadini e dei consumatori. Dopo un’analisi della filiera della carne bovina, degli aspetti produttivi e riproduttivi (individuando i suoi punti critici e le sue opportunità), dell’alimentazione e della gestione adottate dall’allevamento di precisione, il documento propone le eventuali strategie per ridurre l’impronta di carbonio dell’allevamento bovino ed il rapporto tra alimentazione e tecnologie della nutrizione per attenuare l’impatto ambientale. Vengono poi illustrate le prospettive per la filiera della carne bovina, analizzando se i sistemi di allevamento agroecologico e le scelte dei consumatori possano giocare un ruolo nello sviluppo sostenibile di questo settore.

Sistemi della filiera della carne, produttività e riproduzione

La produzione di carne bovina contribuisce all’economia, allo sviluppo rurale, alla vita sociale, alla cultura e alla gastronomia della maggior parte dei paesi, ed è caratterizzata dalla diversità di genotipi e di categorie di animali (vacca, toro, manzo, manza, vitello) e dei sistemi di allevamento (intensivo, estensivo, a pascolo permanente o temporaneo, misti, riproduttori, riproduttori-ingrasso, ingrasso, da latte, specializzati e non, in combinazione con altre produzioni) (Smith et al., 2018; Ryschawy et al., 2019). È quindi possibile identificare diversi sistemi di allevamento, variabili tra i paesi e all’interno dei paesi stessi, dove la linea vacca-vitello rappresenta la base, per passare a quelli che vendono i soggetti svezzati fino alle manze, ai manzi o ai tori da ingrasso. Nelle zone del mondo dove l’allevamento del bestiame è specializzato nella produzione di carne, un modo funzionale per identificare questi sistemi di allevamento è dividerli in cicli produttivi chiusi e aperti. Nel ciclo chiuso, la produzione di carne avviene all’interno della stessa azienda, dove gli animali vengono allevati principalmente al pascolo, anche se possono essere previste somministrazioni di concentrati e brevi periodi di stabulazione al chiuso durante l’ultima fase di ingrasso. Questo sistema è diffuso in Australia e Sud America (Rearte e Pordomingo, 2014; Millen et al., 2011). In Europa questo stesso sistema, che comprende anche la carne proveniente da animali abbattuti, è diffuso nei paesi nord-occidentali (come Irlanda, Gran Bretagna e parte della Francia), dove gli animali vengono macellati ad età (oltre i 2 anni) e a pesi vivi maggiori, rispetto ad altre parti del continente (Mathews e Johnson, 2013). Nel sistema a ciclo aperto – dove la produzione di carne bovina è suddivisa in diverse fasi di gestione dal momento in cui gli animali vengono svezzati fino a quando vengono macellati – i vitelli svezzati sono il principale prodotto degli allevamenti con linea vacca-vitello e vengono venduti agli allevatori che li collocano in recinti per l’accrescimento o per l’ingrasso. Questo sistema di produzione di carne bovina è ampiamente utilizzato in Nord America (Drouillard, 2018), ma sta guadagnando popolarità anche nei paesi sudamericani come Argentina e Brasile (Rearte e Pordomingo, 2014; Millen et al., 2011). In Europa, questo sistema è comune nell’Europa centro-orientale e meridionale. Le attività adottate in questi sistemi nei diversi paesi sono riportate nel Materiale Supplementare S3.

Punti critici ed opportunità per la filiera della carne bovina

Sebbene la produzione di carne bovina sia aumentata rapidamente negli ultimi 50 anni grazie all’impiego di molte nuove tecnologie, le analisi economiche hanno mostrato che le aziende dedite all’ingrasso di solito producono bassi rendimenti. Il costo degli input di produzione e della gestione vengono spesso citati come fattori importanti che influiscono sul profitto, anche se i fattori che influenzano la redditività delle aziende per l’ingrasso bovino sono numerosi, diversi e spesso interconnessi (Göncü et al., 2017). Tuttavia, approcci innovativi che forniscono ai consumatori informazioni più accurate sulla reale qualità della carne bovina, o anche sul diverso taglio anatomico, sembrerebbero essere molto utili per ottenere un chiaro processo di determinazione di un prezzo proficuo lungo tutta la filiera della carne bovina (Bonny et al., 2018). Il limite principale per l’industria delle carni bovine è la bassa resa per peso vivo riproduttivo mantenuto (RLW, kg di vacca e di rimonta allevata in fase di riproduzione), che può essere uguale al numero dei parti (un kg di peso corporeo venduto per kg di RLW), grazie al contributo del settore lattiero-caseario in seguito sostituzione eccessiva dei maschi incrociati e delle bovine abbattute. Limitando l’analisi ai bovini da carne, questo indicatore è solitamente più basso; nell’industria bovina statunitense, basata sulla riproduzione estensiva e sull’ingrasso intensivo, difficilmente si supera un valore RLW di 0.7 (Mekonnen et al., 2019).

In accordo con Diskin e Kenny (2014 e 2016), per avere una buona efficienza riproduttiva negli allevamenti da carne, è fondamentale raggiungere alcuni obiettivi:

  • 365 giorni di intervallo interparto,
  • meno del 5% di vacche abbattute annualmente perché sterili,
  • più del 95% delle vacche capaci di partorire e svezzare un vitello,
  • giovenche che partoriscono a 24 mesi di età,
  • parti compatti, con l’80% delle bovine che partoriscono nell’arco di 42 giorni,
  • tasso di sostituzione del 16 -18%,
  • miglioramento genetico continuo della mandria per caratteri economicamente importanti relativi alla riproduzione (attitudine al parto e peso allo svezzamento del vitello),
  • stretto allineamento della data del parto con l’inizio della disponibilità del pascolo in primavera.

L’intervallo tra un parto e l’altro, il parto della giovenca a 24 mesi di età e la fertilità della mandria possono essere considerati i fattori riproduttivi più importanti capaci di influenzare la produzione di carne bovina. L’intervallo tra i parti è condizionato dall’intervallo tra il parto e il concepimento, che dipende dalla ripresa del ciclo estrale dopo il parto; l’assunzione di nutrienti, prima e dopo il parto, è un fattore importante che influisce sulla durata dell’intervallo di anestro post-parto e, complessivamente, sul tasso di gravidanza. Per valutare lo stato nutrizionale della mandria in un dato momento, il punteggio della body condition (BCS) è un metodo utile (facile da applicare e pratico). Renquist et al. (2006) hanno osservato diminuzioni dell’intervallo interparto quando al momento del parto il BCS è passato da 3.5 a 4.5 (scala 1-9); allo stesso tempo, le vacche con BCS medio (4.5 e 5.5) al momento dello svezzamento, tendevano a svezzare vitelli più pesanti rispetto alle vacche con BCS più bassi o più alti. Inoltre, il BCS allo svezzamento (circa 6 mesi prima del parto) era correlato al peso alla nascita, infatti, le madri con un BCS al momento dello svezzamento di 7, partorivano vitelli più pesanti rispetto alle madri con BCS basso (3-4) o alto (8.5). Poiché la rimonta rappresenta un investimento importante per gli allevatori, è necessario prestare molta attenzione alla gestione delle giovenche al fine di ottenere il prima possibile il primo parto. Tradizionalmente, i pesi target raccomandati per le giovenche da carne alla pubertà (prima di entrare in riproduzione) dovevano aver raggiunto il 60-65% del peso maturo stimato e al primo accoppiamento dovevano aver raggiunto il 65-70%, in modo tale da raggiungere l’85% del peso maturo stimato al primo parto. Questa condizione consente alle giovenche di ridurre al minimo la distocia e di facilitare la ripresa dell’estro post-parto e il successo del seguente accoppiamento (Diskin e Kenny, 2014). Per ottenere una migliore efficienza riproduttiva della giovenca, è essenziale tenere presente che il tasso di crescita prima e subito dopo lo svezzamento ha un effetto marcato sul successo riproduttivo nella prima stagione riproduttiva piuttosto che immediatamente prima della stagione riproduttiva, confermando il fatto che il peso allo svezzamento ha un maggiore impatto sulle tempistiche della pubertà (Day et al., 2013). Manipolare la crescita delle giovenche tra lo svezzamento e la loro prima stagione riproduttiva con piani di alimentazione appropriati è uno strumento efficace per raggiungere il peso corporeo ottimale e garantire il successo dell’accoppiamento. Per quest’ultimo obiettivo sono importanti sia l’esito del parto che la capacità della giovenca di dare una buona prima lattazione, dato che il risultato è il primo vitello svezzato e, in definitiva, l’essere in grado di produrre un vitello ogni anno. Schubach et al. (2019) hanno condotto un trial con giovenche Angus x Hereford, svezzate a circa 201 giorni di età ed alimentate durante la fase di crescita (182 giorni) utilizzando diete con formulazioni diverse al fine di garantire un guadagno di peso corporeo ridotto, moderato o elevato. Il piano alimentare influisce sull’inizio della pubertà, che è apparsa ritardata nelle giovenche con un ridotto guadagno di peso corporeo; inoltre, il raggiungimento della pubertà finale è stato maggiore nelle giovenche con un elevato aumento di peso corporeo rispetto agli altri due gruppi. L’importanza economica della riduzione del periodo improduttivo delle giovenche è evidenziata da López-Paredes et al. (2018): analizzando la produzione nel corso della vita di 7.655 vacche (per un totale di 27.118 registrazioni di parti da 301 vacche di pura razza Blonde d’Aquitaine), hanno osservato una diminuzione del costo di alimentazione delle giovenche di 17.7 €, una diminuzione del costo di produzione di 22.1€ e un aumento del profitto di 21.50€ per animale macellato all’anno, durante l’arco della vita produttiva della vacca, riducendo l’età al primo parto da 3 a 2 anni. Boyer et al. (2020), in uno studio che analizzava gli impatti del fallimento riproduttivo sulla redditività dell’allevamento di giovenche da rimonta nella filiera della carne bovina statunitense, ha mostrato che il risultato economico, valutato in termini di valore attuale netto atteso, è positivo quando la giovenca/vacca non perde alcun vitello o perde un solo vitello durante la propria carriera produttiva, mentre se perde due vitelli il guadagno diventa negativo. Il costo dell’investimento per la madre viene recuperato con sei vitelli senza che ne venga perso nessuno; d’altra parte, la perdita di uno o due vitelli, richiede la produzione di nove o dieci vitelli, rispettivamente, per recuperare l’investimento. Questi risultati suggeriscono che quando una madre perde un vitello, potrebbe non essere redditizio per l’allevatore continuare a metterla in riproduzione; tale valutazione rafforza chiaramente l’importanza economica di una buona scelta delle giovenche in funzione della loro fertilità e quindi della durata della loro carriera riproduttiva. Molti fattori di gestione possono influire sulla fertilità nelle vacche da carne. Il momento più critico per la mortalità embrionale è tra i 5 e i 42 giorni dopo l’inseminazione, quando l’embrione passa nell’utero e qui si completa il suo impianto. Questo periodo è critico per la sopravvivenza dell’embrione, data la sua vulnerabilità a qualsiasi cambiamento nell’ambiente uterino che può essere dovuto a fattori di stress (come il trasporto e lo stress da caldo) o al cambiamento dello stato nutrizionale (bilancio energetico negativo acuto), che possono modificare le componenti delle secrezioni uterine o influenzare le concentrazioni circolanti di progesterone che regolano l’ambiente uterino (Perry et al., 2011). Altri fattori di gestione possono influire sulla fertilità della bovina, come le performance dell’inseminazione artificiale (rilevamento dell’estro, capacità dell’inseminatore e qualità del seme) e la capacità di accoppiamento dei tori (libido, produzione e qualità del seme, rapporto toro/vacca). Qualunque sia la tecnica riproduttiva (inseminazione artificiale o monta naturale), l’utilizzo della stimolazione ormonale può aumentare il tasso di gravidanza e di conseguenza la redditività del bestiame (Baruselli et al., 2018). Tuttavia, aumentare la fecondità (numero di vitelli nati all’anno per vacca) o compattare il ciclo di vita adottando schemi di allevamento alternativi rappresentano le vere strategie per migliorare la produttività delle filiere della carne bovina. Il miglioramento della redditività del settore della carne bovina favorendo le nascite gemellari è una tecnica in campo dagli anni ’70. Normalmente, nei bovini da carne, i gemelli si verificano nell’1-5% dei parti (Moioli et al., 2017) e le triplette sono rare. Gli allevatori per lungo tempo hanno contrastato le nascite di gemelli, principalmente per il free-martinismo, ma anche a causa di problemi legati alla minore sopravvivenza fetale, alla ritenzione della placenta, alla distocia e ad intervalli parto-concepimento più lunghi. Il contributo più importante è stato fornito dal MARC presso il Clay Center in Nebraska, dove nel 1981 è iniziata una sperimentazione con l’obiettivo di migliorare il tasso di gemellarità mediante la selezione. Creando una mandria produttrice di gemelli costituita da 307 vacche con un tasso di parto di 1.11, il progetto è andato avanti per 25 anni registrando un aumento del 3% anno-1 sull’ovulazione e sul tasso di parto e raggiungendo, nel 2004, un tasso di gemellarità di 1.56; le vacche che partorivano gemelli producevano vitelli con un peso allo svezzamento maggiore del 52% che, a livello di allevamento, significava un aumento del reddito del 45% se si ha il 50% delle vacche che producono gemelli (Cummins et al., 2008). Nella stessa prolifica mandria sperimentale, Echternchamp et al. (2007) hanno osservato che i gemelli nati da vacche che ovulavano bilateralmente mostravano una maggiore sopravvivenza e un peso corporeo maggiore alla nascita, una gestazione più lunga e meno problemi di distocia rispetto ai gemelli nati da ovulazione monolaterale. Questi autori hanno riportato anche un aumento di feti abortiti, una durata della gestazione più breve e una minore sopravvivenza nelle gravidanze trigemellari rispetto ai gemelli e al parto singolo. Quando traslati su situazioni commerciali, gli esiti della prolifica mandria sperimentale hanno incontrato alcune difficoltà non prevedibili: mortalità maggiore dei gemelli rispetto ai singoli nati (20.2% vs 3.4%, rispettivamente), maggior rischio di taglio cesareo per le vacche portatrici di 2 gemelli, tasso di gemellarità inferiore rispetto a quanto previsto dal breeding value calcolato nell’allevamento di riferimento (Cummins et al., 2008). Nei bovini italiani autoctoni di razza Maremmana, Moioli et al. (2017), utilizzando la matrice di parentela genomica stimata attraverso i dati dei marcatori genomici, hanno calcolato l’ereditarietà genomica del carattere gemello di 0.29 ± 0.021 e hanno scoperto che i polimorfismi a singolo nucleotide più significativamente individuati (Hapmap22923-BTA-129564) erano localizzati in prossimità di due geni, ARHGAP8 e TMEM200C, che potrebbero essere i potenziali candidati funzionali per il tasso di gemellarità nei bovini. Fenotipicamente, hanno anche riscontrato una mortalità più elevata nei gemelli rispetto ai singoli nati (26.6% vs 5.2%, rispettivamente), anche se non hanno registrato alcun parto difficile probabilmente a causa della ben nota facilità al parto propria della razza maremmana. In breve, anche se la gemellarità rappresenta uno strumento tecnico maturo per incrementare la produzione bovina, i problemi pratici presenti a livello di allevamento commerciale potrebbero averne limitato la diffusione. Tuttavia un’analisi accurata dei pro e dei contro fatta su misura per il singolo allevamento, che tenga in considerazione aspetti locali (competenze del personale, costo del lavoro, disponibilità e costo dei servizi veterinari, strutture per la stabulazione, ecc.) e generali (clima, costi dei mangimi, prezzi della carne, mezzi di trasporto, ecc.), potrebbe promuovere l’applicazione di questa tecnica. Un esempio di aumento della produzione dello schema di prolificità applicato in una mandria allevata in condizioni mediterranee con un tasso di gemellarità del 50%, calcolato utilizzando la mortalità e le performance della carcassa misurate da Echternchamp et al. (2007), è presentato in Fig. 3b e messo a confronto con un allevamento normale (Fig. 3a): lo schema di gemellarità rende possibile un aumento del 21% della produzione di carcasse. Un modo alternativo che potrebbe incrementare la produzione di carcasse per vacca mantenuta nella mandria è il programma “manzarda”. Manzarda è il nome italiano che viene dato ad una vacca primipara con un parto precoce (26 mesi) che viene macellata a 36 mesi, dopo un breve periodo di ingrasso, contemporaneamente alla sua prole finita. In questo caso, come illustrato in Fig. 4b, la resa è del 18% superiore a quella della mandria normale (Fig. 4b). Infine, combinando i programmi ”prolifico” e ”manzarda”, con gli stessi parametri utilizzati nelle Fig. 3a, 3b, 4a, e considerando la femmina gemella nata in caso di parto con sessi uguali utile per la riproduzione (28% secondo Echternchamp et al., 2007), la resa può raggiungere il 43% in più rispetto a quella di una mandria normale (Fig. 4b).

Per migliorare l’efficienza riproduttiva (e di conseguenza la redditività) negli allevamenti bovini, in alcuni casi, è sufficiente diffondere l’applicazione di tecniche già esistenti da tempo (come la sincronizzazione dell’estro e l’inseminazione artificiale). Queste richiedono sempre una valutazione economica, che può variare a seconda delle condizioni dell’allevamento. In alcuni allevamenti può essere sufficiente programmare la stagione riproduttiva, utilizzando la sincronizzazione dell’estro e la monta naturale, per concentrare i parti nella stagione con maggiore disponibilità di pascolo. In altri allevamenti potrebbe essere più redditizio ricorrere anche a tecniche di inseminazione artificiale e all’utilizzo di seme sessato. Con un programma di sincronizzazione, tutte le femmine avrebbero tre opportunità di concepire entro la fine di una stagione riproduttiva di 45 giorni, data una durata media del ciclo estrale di 21 giorni. Senza sincronizzazione sarebbero necessari più di 60 giorni. Il vantaggio del seme sessato è che potrebbero essere prodotte giovenche da rimonta da vacche e tori selezionati che vadano a soddisfare le specifiche esigenze della mandria materna; il resto della mandria potrebbe essere inseminato da tori terminali che eccellono nella crescita e nell’efficienza di conversione alimentare e che soddisfino i requisiti necessari per la carcassa (Johnson, 2005). L’utilizzo dell’embryo transfer su larga scala appare più difficile, a causa degli innumerevoli fattori che possono influenzare il risultato. Negli allevamenti bovini che prevedono piani riproduttivi con embryo transfer, la preoccupazione principale è la gestione della vacca ricevente piuttosto che quella della vacca donatrice, perché la prima sopporta lo sforzo fisiologico della gestazione e sosterrà la prima fase di allevamento del vitello con elevato valore genetico. La selezione e l’identificazione di riceventi di alta qualità non sono semplici: non solo è necessario conoscere la loro storia di fertilità, ma devono essere cicliche, avere un piano nutrizionale di elevata qualità ed un canale pelvico di dimensioni adeguate e di conformazione normale; inoltre, le riceventi dovrebbero avere meno di 8 anni ed essere strutturalmente sane. La massima fertilità si verifica nelle mandrie che vivono in strutture dove le manipolazioni sono progettate per garantire che i bovini siano gestiti con il minimo stress. In un recente articolo, Thompson et al. (2020) sono partiti dal concetto che l’intensificazione della sostenibilità della filiera si basa sulla massimizzazione della produzione per unità di terreno, fino ad arrivare a raccomandare la “taglia idonea della vacca” come strumento utile per gli allevatori per prendere decisioni informate in base alle loro specifiche condizioni ambientali. Questo studio, effettuato utilizzando i dati raccolti per le mandrie di vacche dal 2011 al 2018 nell’Upper Midwest degli Stati Uniti, mostra che le vacche con peso inferiore garantiscono un incremento del peso allo svezzamento dei vitelli per unità di superficie. La conclusione è stata che dovrebbe essere fatta un’analisi critica per ciascuna condizione produttiva, per poter fornire raccomandazioni utili ai produttori in modo tale che possano prendere decisioni informate in termini di opportunità per massimizzare la loro produttività.

Figura 3. Diagramma della produzione di carne bovina in condizioni Mediterranee: flusso di mandrie (a) normali, (b) prolifiche.

Figura 4. Diagramma della produzione di carne bovina in condizioni Mediterranee: (a) flusso delle mandrie con programma “manzarda”, (b) flusso delle mandrie “prolifiche” combinate con le mandrie con programma “manzarda”.

Alimentazione e gestione aiutate dalla zootecnia di precisione

Le principali sfide nell’alimentazione dei bovini da carne sono legate agli obiettivi di efficienza alimentare che vengono spesso perseguiti attraverso il miglioramento del Residual Feed Intake (RFI). Questo parametro è ampiamente utilizzato nella selezione genetica per l’efficienza alimentare poiché la deviazione RFI assicura un’ampia varianza genetica additiva, anche se questo calcolo è fenotipicamente indipendente dal tratto di performance ma non garantisce (anche) l’indipendenza genetica (Kenny et al., 2018). Sebbene questo parametro sia stato utilizzato per molti anni, una recente review di Kenny et al. (2018) ha affermato che mancano ancora le conoscenze scientifiche necessarie per svelare la sua regolazione biologica, specialmente per quanto riguarda il suo contributo sul controllo dell’appetito, sulla funzione gastrointestinale, così come sull’energia cellulare e sul metabolismo che potrebbero aiutare ad ottimizzare la composizione corporea e gli obiettivi di maturità per migliorare anche la qualità della carne e l’efficienza riproduttiva. In particolare è necessario focalizzarsi sulla variabilità individuale (Cantalapiedra-Hijar et al., 2018). L’alimentazione e la nutrizione da sole, infatti, non bastano: è necessario associarle a miglioramenti genetici e gestionali degli animali, e ad un utilizzo corretto e sostenibile del territorio. Ogni territorio ha caratteristiche proprie e l’allevamento bovino deve adeguarsi ad esse: i sistemi estensivi con pascolo sono sicuramente adatti in alta montagna, mentre i sistemi intensivi sono da preferire in pianura. A loro volta, le diete devono essere formulate di conseguenza, con più ingredienti fibrosi nei sistemi estensivi e più amidi nei sistemi intensivi. Le elevate performance di crescita raggiunte nei sistemi di ingrasso intensivo richiedono concentrazioni proteiche ed energetiche relativamente elevate. L’applicazione della zootecnia di precisione (PLF) consente l’utilizzo di nuove tecnologie per monitorare automaticamente ogni singolo animale e poter prendere decisioni immediate. Il PLF ha riscontrato grande interesse nel settore lattiero-caseario, dove la riproduzione necessita di particolare attenzione. Aspetti economici, come le basse rese negli allevamenti di bovini da carne, spiegano il minor interesse di questo settore verso queste tecnologie. Tuttavia, l’uso del PLF si sta lentamente diffondendo anche negli allevamenti da carne con utilizzi che possono contribuire al miglioramento della gestione degli animali, della loro produttività e quindi della sostenibilità della produzione. Recenti studi mostrano l’utilizzo proficuo di sensor data unitamente a modelli di Machine Learning per migliorare sia la gestione complessiva degli allevamenti da carne (Barriuso et al., 2018) sia la gestione di esigenze specifiche, tra cui alcuni punti più critici del sistema produttivo come il momento del parto (Miller et al., 2020). Makine et al. (2019) hanno confermato che in Canada la filiera della carne bovina è più lenta nell’adottare le tecnologie di PLF per il monitoraggio della salute e del benessere individuale dei bovini da carne rispetto ad altri settori zootecnici. Essi ipotizzano che potrebbero essere coinvolti in questa disparità fattori socioeconomici, dato che le attuali tecnologie di PLF non sono appropriate per gli allevatori di bovini o per i loro animali, quindi sono poco incentivati ad adottarle. Esistono diverse tecnologie di sensori che offrono alternative più specifiche per le aziende che allevano bovini. Gli allevatori possono massimizzare l’efficienza utilizzando idonei sistemi di monitoraggio in periodi critici al fine di raggiungere obiettivi ideali e di ottenere un profitto ottimale. Ad esempio, i sensori ambientali che controllano automaticamente le imposte o le coperture delle finestre o la ventilazione, aiutano a gestire la temperatura e l’umidità della stalla. Poiché i mangimi costituiscono il 50-70% dei costi di produzione negli allevamenti da ingrasso, il miglioramento dell’efficienza dei mangimi lo ridurrà in proporzione a livello di intera operazione. Pertanto, il monitoraggio dell’assunzione di mangime durante il periodo di ingrasso è un fattore chiave per una produzione redditizia. L’uso di mangiatoie automatizzate, che raccolgono i dati sulle assunzioni di alimento, ci consente di effettuare valutazioni economiche e di segnalare gli animali con problemi (Göncü et al., 2017). Poiché il mangime fresco motiva i bovini a mangiare di più, i sistemi con alimentazione automatica, o quelli dotati di tecnologia robotica, hanno un’influenza positiva sulla redditività dell’ingrasso, grazie alla riduzione al minimo degli sprechi e del lavoro relativo all’alimentazione degli animali (Makinde et al., 2019). Identificatori elettronici e bilance consentono agli allevatori di monitorare l’aumento di peso alle date previste; allo stesso tempo, i dati raccolti consentono di calcolare i tassi di conversione dell’alimento, aiutano nel determinare il giusto termine di commercializzazione del periodo ottimale di ingrasso e ad evitare la sovralimentazione (Göncü et al., 2017). Sono stati sviluppati sistemi di acquisizione automatica delle immagini 3D per la BCS, utilizzando diverse tipologie di telecamere che analizzano i contorni della vacca, grazie alle forti correlazioni tra misurazioni manuali e video (Alvarez et al., 2018); questi dispositivi possono essere opportunamente posizionati in associazione con il rilevatore automatico di peso. L’ecografia in tempo reale – che è un metodo non invasivo precoce e conveniente per visualizzare i tessuti muscolari e adiposi negli animali vivi – può essere utilizzata per scansionare la composizione corporea, rendendo possibile determinare la maturità e il prezzo di vendita prima della macellazione (Pathak et al., 2011). In condizioni di allevamento estensivo, la stima in tempo reale della disponibilità delle fitomasse erbacee (erba) mediante telerilevamento da segnale spettrale satellitare e la stima del comportamento animale (attività di pascolo, attività fisica e ruminazione) mediante un collare dotato di un sistema di posizione globale (GPS) sono esempi di un’alimentazione di precisione, che ci può aiutare nel prendere decisioni sulla gestione della mandria (Oltjen e Gunter, 2015; Greenwood et al., 2017; Bailey et al., 2018). Le differenze nei modelli di attività, come la percentuale di tempo trascorso al pascolo, riposando o camminando, possono essere quantificate ed utilizzate per confrontare se, ad esempio, le vacche sono più attive quando sono disponibili integratori e sale. Il tracciamento GPS può essere utilizzato anche per quantificare la distanza percorsa dagli animali ogni giorno e di conseguenza può essere impiegato per aiutare a stimare il dispendio energetico (Brosh et al., 2006). Tutte queste tecnologie potrebbero essere potenziate se si creasse una vera rete tra allevatori, servizi di divulgazione e ricercatori: il progetto Horizon 2020 SmartCow (https://www.smartcow.eu/) è una delle migliori iniziative in campo per colmare il divario tra scienza e agricoltura e per rendere il settore zootecnico più intelligente e sostenibile.

Strategie per diminuire l’impronta di carbonio dell’allevamento bovino

Diversi studi di Life Cycle Assessment (LCA) sulla produzione di carne bovina hanno dimostrato che il sistema di allevamento è il principale fattore che influenza i risultati. Tuttavia, sono sorte diverse critiche sull’utilizzo di questo approccio, principalmente a causa del problema di allocazione. Nella filiera della carne bovina, questo problema è stato recentemente affrontato da Wilfart et al. (2021), che hanno dimostrato l’impossibilità di scegliere un’unica regola di allocazione “migliore” basata solo su argomentazioni tecnico-scientifiche. “Nessuna regola di allocazione è perfetta, poiché l’allocazione sarà sempre artificiale”. Infatti, è indispensabile una conoscenza precisa del processo per una corretta individuazione delle alternative di allocazione. Un’ulteriore lacuna del LCA applicata alla filiera bovina è che non tiene conto degli effetti del cambiamento di destinazione d’uso del terreno, che è alla base dei flussi perturbativi di anidride carbonica da e verso il terreno, perché è difficile stimarli; tuttavia, ciò può causare una mancanza di informazioni che potrebbe portare a conclusioni errate (Cederberg et al., 2011). Tenendo presenti i limiti dei metodi di LCA, la tabella 2 mostra l’impronta di carbonio (CFP) di alcuni studi condotti in Italia. Sebbene sia necessaria cautela nel confrontare i risultati di diversi studi, sembra che la CFP vada da 26.3 kg CO2eq/kg di peso corporeo, nel caso di una razza locale non specializzata (Podolica) allevata al pascolo, a 9.9 kg CO2eq, con razze francesi specializzate che vengono inizialmente tenute al pascolo e fanno il finissaggio al chiuso (questa cifra è probabilmente troppo ottimistica perché si basa sul presupposto che i pascoli siano un serbatoio perpetuo per il carbonio). La tabella 2 mostra anche che la CFP associata al sistema di allevamento convenzionale è inferiore a quella del sistema biologico. La specializzazione ha determinato un aumento della produttività e, di conseguenza, una diminuzione dell’intensità delle emissioni di gas serra (GHG), ovvero di GHG emessi per unità di prodotto. Ciò che occorre considerare quando si confrontano sistemi specializzati con sistemi non specializzati è che i primi sono più produttivi, ma sono spesso caratterizzati da tassi di allevamento più elevati, che potrebbero rappresentare un compromesso per la qualità dell’acqua e dell’aria in alcune zone, dovuto ad un eccesso di nutrienti che le colture e il suolo non possono assorbire.

Tabella 2. Impronta di carbonio di un kg di BW in diversi sistemi di produzione della carne bovina italiani.

SystemCarbon footprint (kg of CO2 k -1 of BW)
Berton et al. 2017French–Italian specialised
(without carbon sink)
13
French–Italian specialised
(with carbon sink)
9.9
Bragaglio et al. 2018Local breed in extensive
system
26.3
Specialised breed in extensive25.4
French–Italian specialised
(without carbon sink)
17.6
Closed cow–calf intensive21.9
Buratti et al. 2017Conventional 18.2
Organic24.6

In uno studio che metteva a confronto l’impatto ambientale dei sistemi di produzione di carne bovina convenzionale (CON), naturale (NAT, simile a CON, ma senza l’uso di tecnologie che favoriscono la crescita) e grass-fed, utilizzando modelli per quantificare gli input delle risorse e gli output dei rifiuti per un milione di tonnellate di peso della carcassa, Capper (2012) ha riscontrato che il sistema CON richiedeva il 56.3% degli animali, il 24.8% dell’acqua, il 55.3% del suolo e il 71.4% dell’energia da combustibili fossili in più rispetto al sistema grass-fed. La CFP (kg CO2eq/kg carcassa) era più bassa nel CON (16.0), intermedia nel NAT (18.8) e più alta nel sistema grass-fed (26,8). L’origine del vitello influenza la CFP della carne bovina: i sistemi basati sull’inseminazione delle vacche da latte con seme di razze da carne specializzate hanno una CFP inferiore a quella delle vacche nutrici, perché il contributo della madre all’impatto è totalmente destinato alla produzione di carne bovina, mentre nel sistema dell’allevamento da latte, il contributo della madre è destinato principalmente alla produzione di latte (de Vries et al., 2015; van Selm et al., 2021). In uno studio che metteva a confronto quattro sistemi di produzione di carne bovina (uno da allevamenti di vacche nutrici e tre da vitelli da latte allevati in modo intensivo), gli impatti ambientali per la produzione di 1 kg di carne bovina al macello in termini di riscaldamento globale, acidificazione, eutrofizzazione, occupazione del suolo ed energia non rinnovabile erano maggiore per la carne bovina da allevamenti di vacche nutrici rispetto al quelli di carne bovina da vitelli da latte: in media 27.3 vs 17.9 kg CO2eq, 210 vs 135g SO2eq, 1651 vs 833g NO3eq, 42.9 vs 18.6 m2/anno e 59.2 vs 43.7 MJ (Nguyen et al., 2010). Allo stesso modo, de Vries et al. (2015), esaminando 14 studi di LCA, hanno riportato che sono stati ottenuti in media una minore CFP (-41%), un minor potenziale di acidificazione (-41%) e di eutrofizzazione (-49%), un minor consumo di energia non rinnovabile (-23%) e un minor utilizzo del suolo (-49%) per unità di carne bovina per i sistemi basati sui bovini da latte rispetto ai sistemi basati su vacche nutrici. In quest’ultimo, il mantenimento della madre è il principale fattore che contribuisce a tutti gli impatti, a causa del basso tasso di riproduzione dei bovini e del fatto che tutte le emissioni sono destinate alla produzione di carne bovina. Confrontando i sistemi a base di concentrato con i sistemi a base di foraggio grezzo, gli autori hanno riscontrato una minor CFP ( -28%), un minor consumo di energia (-13%) e di utilizzo del suolo (-41%) per unità di carne bovina per i primi, mentre non sono emerse prove chiare per il potenziale di acidificazione e di eutrofizzazione. In linea generale, più a lungo vivono i bovini da carne in finissaggio, maggiore è l’impatto che hanno sull’ambiente, in quanto il mangime utilizzato per ottenere elevati incrementi di peso può, a sua volta, avere un impatto elevato. Rotz et al. (2019), analizzando gli allevamenti bovini in diverse aree geografiche degli Stati Uniti, hanno notato che sono possibili interventi per contenere l’impronta ambientale, data l’elevata variabilità tra le aree; tuttavia, queste differenze sono dovute principalmente alla variabilità del terreno e delle condizioni climatiche che influiscono sulle emissioni di carbonio e azoto. Sebbene il sistema di produzione di carne bovina nordamericana, analogamente a quello dell’Europa occidentale, sia altamente efficiente, diverse strategie di mitigazione potrebbero ridurre ulteriormente le emissioni di GHG associate alla produzione di questa tipologia di carne, con una riduzione totale del 20% circa se venissero applicate più strategie sia alla mandria di vacche che ai recinti di alimentazione, con il primo di gran lunga il più importante. Beauchemin et al. (2011) hanno concluso che “quando nello scenario di base il pascolo è stato appena seminato su terreni precedentemente coltivati, il suo carbonio nel suolo aumenta più che compensare tutte le emissioni di GHG, modificando il sistema di produzione della carne bovina da emettitore netto ad assorbitore netto di carbonio. Sebbene tali stime dell’acquisizione di carbonio nel suolo siano incerte, questo scenario dimostra che il bilancio netto di GHG della filiera della carne bovina è fortemente influenzato dalle dinamiche del carbonio nel terreno di base associato, enfatizzando l’importanza di includere queste dinamiche nelle valutazioni del potenziale di mitigazione. Tuttavia, esiste anche un’elevata variabilità nella CFP per unità di BW all’interno degli stessi sistemi di produzione, a causa della varietà di procedure tecniche e gestionali adottate dagli allevatori di bovini (Carè et al., 2019). La variabilità tra i sistemi di produzione e gli allevamenti dimostra che c’è spazio per miglioramenti in termini di efficienza, consumo di risorse ed impatto ambientale. Molti ricercatori hanno dimostrato che esistono numerosi interventi, oltre a quelli sul piano nutrizionale, che possono essere messi in atto per ridurre le emissioni di GHG da letame, dalle coltivazioni e, più in generale, dalla gestione degli allevamenti e degli animali (vedi Materiale Supplementare S4). Il progetto LIFE BEEF CARBON ha testato una serie di strategie per fornire un piano di mitigazione del carbonio nel settore della carne bovina. Il progetto ha coinvolto più di 2 000 allevamenti di bovini da carne in Francia, Irlanda, Italia e Spagna, con l’obiettivo di ridurre la CFP della carne bovina del 15% in dieci anni. È stato proposto agli allevatori un elenco di provvedimenti che spaziavano dalle performance degli animali alla dieta, dalla fertilità del suolo ai fertilizzanti azotati, dalla gestione del letame all’energia e al sequestro del carbonio (O’Brien et al., 2020). Alcune di queste strategie sono state considerate molto efficaci, come la diminuzione dell’età alla macellazione, l’ottimizzazione della CP della dieta, la digestione anaerobica, la conservazione o l’aumento di prati permanenti, siepi o alberi. La maggior parte dei provvedimenti suggeriti può essere cumulata per ottenere diminuzioni della CFP della carne bovina anche eccedenti l’obiettivo del progetto.

Tecnologie di nutrizione e dell’alimentazione nella filiera della carne bovina per contenere gli effetti sull’ambiente

La nutrizione e l’alimentazione sono fondamentali per avere performance soddisfacenti degli animali e svolgono anche un ruolo importante nel migliorare l’efficienza produttiva, nell’abbassare i costi e nel migliorare la sostenibilità ambientale (Kenny et al., 2018). La bassa efficienza dei bovini da carne rispetto ai suini e al pollame è evidente solo quando non si considerano le diverse fonti di alimenti (Wilkinson, 2011). La differenza tra monogastrici e poligastrici è ben nota ed è principalmente legata al sistema digestivo dei bovini, che si è sviluppato per lo sfruttamento della fibra. Questo è un aspetto molto vantaggioso in quanto non li mette in competizione con l’uomo e, se considerassimo solamente le proteine non commestibili per l’uomo, la produzione di carne bovina potrebbe essere molto efficiente, più di quella dei maiali e del pollame (Baber et al., 2018). Ciononostante, alimentazione ed efficienza energetica sono sicuramente ostacolate dai processi ruminali nel caso di diete ricche di carboidrati non fibrosi, quindi minore sarà l’utilizzo di mangimi concentrati e maggiore sarà quello di foraggi e sottoprodotti, il bestiame meglio contribuirà all’assunzione netta di nutrienti per l’alimentazione umana (Wilkinson e Lee, 2018). Per i ruminanti in generale, e per i bovini da carne in particolare, esiste una netta distinzione tra sistemi intensivi ed estensivi: i secondi si basano principalmente sul pascolo, mentre i primi dipendono fortemente dai campi coltivati per la somministrazione di foraggi e concentrati. I sistemi intensivi di bovini da carne generalmente consentono livelli di produzione più elevati associati ad un minore impatto ambientale per unità di prodotto (kg di aumento di peso giornaliero, kg di carcassa, kg di proteine della carne…). L’elevata efficienza dei sistemi intensivi è dovuta principalmente alla “diluizione” dei costi di manutenzione: la quota di energia utilizzata per la produzione è maggiore negli animali più efficienti. White e Capper (2013) hanno proposto un’estensione economica di questo concetto. Come riportato da White et al. (2015), “quando il sistema produttivo è visto come un’entità biologica, lo sviluppo delle femmine riproduttive è un costo energetico ed economico analogo all’energia di mantenimento a livello di animale. Proprio come il rapporto tra l’energia di mantenimento e l’energia di crescita aumenta con l’efficienza biologica in un animale, la ripartizione dell’energia dalle femmine riproduttive alla prole destinata al mercato della carne bovina è migliorata con tassi di riproduzione più elevati e con la diminuzione delle perdite di vitelli. La gestione per migliorare il merito genetico e la gestione nutrizionale aiutano a promuovere la diluizione del mantenimento a livello animale, mentre il miglioramento dell’efficienza riproduttiva dei bovini aiuta a promuovere la diluizione del mantenimento a livello di sistema di allevamento”. L’età tardiva al primo parto, la fertilità e la prolificità relativamente limitate dei bovini sono fattori che influenzano negativamente la produzione di carne bovina e la sua sostenibilità ambientale. Una corretta alimentazione e un corretto bilanciamento della razione sono essenziali per una diminuzione dell’età al primo parto e dei relativi costi per l’ambiente (Gerber et al., 2015). L’alimentazione di precisione è, quindi, uno strumento per la salute e la gestione degli animali utile per migliorare la conversione dei mangimi e quindi risparmiare terreno per la conservazione.

Escrezione di azoto e fosforo

L’alimentazione di precisione consente certamente di ridurre l’escrezione di N e P, ma nessuno possiede una bacchetta magica e vi è relativamente poco margine per un miglioramento della sostenibilità. L’importanza di fornire la quantità idonea, e non un eccesso, di proteine ai bovini in accrescimento/ingrasso per avere elevate performance di crescita e una minore escrezione di N è stata evidenziata da diversi esperimenti. Tra questi Cole et al. (2005), facendo riferimento anche ad altri studi, hanno rilevato che l’effettivo fabbisogno di CP per ottenere performance ottimali e massima ritenzione di N era tra l’11.5 e il 13.0% di CP sulla DM per manzi incrociati di oltre 300 kg di peso vivo. Detto ciò, sono da evitare elevati contenuti proteici nella dieta. Tuttavia, gli autori avvertono che se le concentrazioni proteiche nella dieta vengono ridotte al punto tale da influire negativamente sulle performance degli animali, le emissioni totali di ammoniaca potrebbero aumentare perché gli animali richiedono più giorni di ingrasso per raggiungere il peso e i requisiti di mercato. A causa della diminuzione del fabbisogno proteico man mano che gli animali crescono e maturano, l’impiego dell’alimentazione in fasi dovrebbe ridurre l’escrezione di N e le emissioni di ammoniaca dai bovini da carne. Coerentemente con l’ultimo studio citato, Vasconcelos et al. (2006) hanno riportato che la riduzione della CP della dieta durante le fasi finali del finissaggio dei bovini da ingrasso (ad es. 11,5% su DM) può ridurre l’escrezione di azoto nell’ambiente senza intaccare le performance degli animali. Un metodo nutrizionale per ridurre al minimo l’escrezione di N e P da parte dei bovini da carne, ma che vale per qualsiasi animale, consiste nel formulare diete che non superino i requisiti per i due elementi. Gestire le diete dei bovini per riuscire a soddisfare, ma senza superare, i requisiti metabolici di CP è quindi il modo più pratico per ridurre le perdite di N; tuttavia, occorre prestare attenzione ai cambiamenti nelle diete per evitare conseguenze negative non volute sulla produzione animale che porterebbero ad un maggiore impatto ambientale per unità di peso vivo o di carne. Negli esperimenti sul bilanciamento dei nutrienti, la diminuzione del P della dieta (% sulla DM) dalla media effettiva di 0.35 al fabbisogno previsto dall’NRC (0.22-0.28) non ha influito sul guadagno, ma ha ridotto l’apporto di P del 33-45% e l’escrezione del 40-50% (Klopfenstein ed Erickson, 2002). Per l’azoto, il sistema della proteina metabolizzabile può consentire una formulazione della dieta più accurata, diminuendo così l’escrezione di N. Klopfenstein e Erickson (2002) hanno scoperto che l’utilizzo del modello NRC e dell’alimentazione in fasi per non superare il fabbisogno di proteina metabolizzabile durante il periodo di ingrasso, ha ridotto gli apporti di N del 10-20% per i vitelli e per gli animali di un anno senza influire sull’incremento di peso giornaliero. La diminuzione degli input di N ha portato ad una concomitante diminuzione dell’escrezione di N (12–21%) e della volatilizzazione (15–33%) nei recinti per l’ingrasso all’aperto.

Diete calibrate in base al territorio

A livello globale, la filiera della carne bovina, considerata il principale produttore di carne tra i ruminanti, richiede circa 2.8 kg di cibo commestibile per l’uomo per ogni kg di carne disossata (Mottet et al., 2017). Tuttavia, questo sistema sembra essere altamente efficiente perché converte il cibo prevalentemente non commestibile per l’uomo in cibo concentrato ad elevato contenuto proteico diventando, in uno dei più importanti paesi produttori (USA), un produttore netto di proteine per l’uomo (Baber et al., 2018). In realtà, massimizzare la produzione di proteine della carne per unità di terreno richiede sia l’adattamento del sistema zootecnico al territorio, sia il massimo utilizzo di tutte le risorse per alimentare gli animali (coprodotti, aree marginali, scarti alimentari, residui delle colture, ecc.) (Van Zanten et al. al., 2016). In poche parole, ogni filiera bovina dovrebbe essere adattata alle condizioni agroecologiche del proprio territorio. Bianco et al. (2014) hanno sviluppato un modello per ottimizzare la gestione nutrizionale dei bovini da carne per ridurre al minimo il suo impatto ambientale in termini di sfruttamento del suolo, di utilizzo dell’acqua e di emissioni di GHG negli Stati Uniti. Quando il modello è stato impostato per l’ottimizzazione di un unico obiettivo, abbiamo ottenuto una diminuzione, rispettivamente, del 5.4%, 4.3% e 3.6% per lo sfruttamento del suolo, l’acqua e i GHG; impostando il modello per un’ottimizzazione multi-obiettivo è stata valutata una diminuzione media dell’impatto ambientale del 2.3%. Nella maggior parte dei sistemi di produzione di carne bovina, i vitelli di entrambi i sessi dipendono principalmente dal pascolo durante lo svezzamento (per la maggior parte circa 8-10 mesi) e in seguito possono continuare a pascolare o essere alimentati con una razione mista totale nei sistemi di ingrasso intensivo dove l’aumento di peso giornaliero è 2-3 volte superiore rispetto a quello raggiunto al pascolo (Pierrehumbert e Eshel, 2015). I sistemi che prevedono un’alimentazione al pascolo producono invariabilmente più metano (CH4) per unità di carne bovina ottenuta, a causa della maggiore quantità di carboidrati complessi fermentati nel rumine e perché i bovini in tali sistemi impiegano più tempo per raggiungere il peso alla macellazione. In linea di principio, questo svantaggio può essere compensato dalla riduzione delle emissioni di CO2 e di protossido di azoto (N2O) mediante una diminuzione del consumo di energia in azienda, una diminuzione dell’utilizzo di fertilizzanti sintetici e una migliore gestione del letame. Tuttavia, questa compensazione non deve essere data per scontata in tutti i sistemi grass-fed. Nella loro ricerca, Pierrehumbert ed Eshel (2015) hanno evidenziato la principale differenza della produzione di carne bovina associata alla produzione lattiero-casearia, dai sistemi destinati alla sola produzione di carne bovina. Il primo raggiunge emissioni di CO2 e N2O molto inferiori rispetto al secondo. Beauchemin et al. (2011) hanno studiato come le pratiche di mitigazione applicate a uno scenario di base, descritto in un precedente documento (Beauchemin et al., 2010), possano ridurre le emissioni di GHG della carne bovina nel Canada occidentale, dove l’80% delle emissioni di GHG proviene da sistemi vacca-vitello e il 20% da sistemi per l’ingrasso. Nei sistemi vacca-vitello, l’uso di semi oleosi nella razione, il miglioramento della qualità del foraggio o l’aumento del numero di vitelli svezzati hanno determinato una riduzione dei GHG, rispettivamente, dell’8.5 e del 4%. Applicate alla gestione dei recinti da ingrasso, le tecniche di nutrizione appaiono meno efficaci. Tuttavia, l’aumento dell’assunzione di foraggio nei bovini in accrescimento aumenta l’emissione di GHG del 6% circa, mentre ciascuna delle altre strategie di alimentazione testate, ha ridotto i GHG di meno del 2%. La nutrizione e l’alimentazione sono sicuramente importanti per la riduzione dell’impatto ambientale dei bovini da carne. Tuttavia, solo un approccio olistico che comprenda anche l’efficienza genetica e riproduttiva potrà offrire un effettivo miglioramento in termini di impatto ambientale. Bianco et al. (2015) hanno riferito che l’utilizzo della differenza di progenie attesa per i tori selezionati, della finestra dei parti e l’ottimizzazione della gestione nutrizionale hanno portato a una riduzione del 14.5% dello sfruttamento del suolo, dell’utilizzo dell’acqua e delle emissioni di GHG all’interno della filiera della carne bovina.

Sottoprodotti e additivi per mangimi

L’utilizzo di sottoprodotti è comune e consigliato quando si formulano diete per i bovini, sia dal punto di vista economico che ambientale (economia circolare), ma occorre prestare attenzione al livello di introduzione nelle diete. Ad esempio, una quantità eccessiva di razione mista totale costituita da mais o frumento provenienti dalla distillazione (10% di grassi e 30-40% di CP, su DM) può ridurre l’emissione di metano a causa del contenuto di lipidi, ma aumenta l’escrezione di N e la probabile emissioni di N2O dal terreno, con un conseguente aumento del 7.8% di GHG: 15.2 vs 14.1 kg CO2 eq/kg LW per la razione mista totale somministrata ai bovini contenente cereali della distillazione (come mais o frumento) rispetto alla razione mista totale contenente granella di orzo come principale fonte di energia supplementare, che sarebbe la pratica standard nelle diete formulate per i bovini da carne del Canada occidentale (Hünerberg et al., 2014). La linea guida è sempre quella di fornire i nutrienti (ad es. la CP) necessari ai bovini da carne e niente di più. Allo stesso modo, il letame proveniente da animali alimentati con cereali della distillazione dovrebbe essere sparso sul terreno secondo un quantitativo che corrisponda ai requisiti di N della coltura. Alcune tipologie di alghe, in particolare le macroalghe (alghe marine), contengono composti alogenati (bromoformi e florotannini) che inibiscono la metanogenesi (Kinley et al., 2016), ma sono necessarie ulteriori ricerche sulle alghe contenenti bromoformi per garantire la sicurezza in termini di salute umana e di sicurezza ambientale (impoverimento dell’ozono). Alcuni additivi per mangimi possono essere impiegati nella formulazione delle diete per bovini da carne allo scopo di ridurre la metanogenesi ruminale. La maggior parte sono sostanze naturali (ad es. oli essenziali, tannini, saponine, ecc.) prodotte da diverse piante. È stato testato anche l’acido fumarico (Beauchemin e McGinn, 2006), ma sebbene abbia determinato cambiamenti potenzialmente benefici a livello di fermentazione ruminale (aumento della concentrazione totale di AGV e delle percentuali di propionato e diminuzione del rapporto acetato:propionato), non sono state rilevate diminuzioni misurabili delle emissioni di metano. Nel caso degli oli essenziali, una loro miscela brevettata ha dato risultati promettenti nelle vacche da latte (Belanche et al., 2020). Gli autori hanno eseguito una meta-analisi su 23 studi in vivo nei quali la miscela di oli essenziali veniva integrata ad 1 g/giorno per vacca; studi a lungo termine (>4 settimane di trattamento) hanno rivelato che l’integrazione a base di oli essenziali ha aumentato la produzione di latte e l’efficienza alimentare senza ulteriori cambiamenti nella composizione del latte e nell’assunzione di alimento. La produzione di metano è diminuita per giorno (-8.8%), per assunzione di DM (-12.9%) e per produzione di latte corretto in grassi e proteine (-9.9%), senza modificazioni nel modello di fermentazione ruminale. Questi risultati sono promettenti per un possibile utilizzo benefico dell’additivo nei bovini da carne. Anche il nitrato, preferibilmente incapsulato, può essere utilizzato per ridurre la metanogenesi nel rumine, essendo un accettore di H. Lee et al. (2017) hanno scoperto che il 2% di nitrato sulla DM ha ridotto l’emissione di CH4 fino al 12% nei bovini da carne. È prevedibile un leggero aumento dei residui di nitrati nei tessuti a seguito della somministrazione di nitrati ai bovini da carne (Doreau et al., 2018), ma a livelli molto bassi e non considerati dannosi per l’uomo. Un altro interessante additivo per mangimi è il 3-nitroossipropanolo, 3-NOP, un inibitore dell’enzima metil-coenzima M reduttasi che catalizza la fase finale della metanogenesi. Vyas et al. (2016) hanno riportato per il 3-NOP (100 o 200 mg/kg DM) un’efficacia media del 40% nel ridurre le emissioni enteriche di CH4 prodotte da bovini alimentati durante la crescita e il finissaggio con diete ad alto contenuto di foraggio o cereali, ma questi effetti sono stati annullati una volta che l’integrazione di 3-NOP è stata interrotta. McGinn et al. (2019) ipotizzano che nel tempo potrebbe esserci un adattamento agli inibitori.

Input

Gli allevamenti specializzati nell’ingrasso dei bovini da carne acquistano grandi quantitativi di cereali, legumi o sottoprodotti, che sono spesso la fonte primaria di GHG negli studi di LCA. Per questo motivo, la scelta dei mangimi influisce non soltanto sulle emissioni dal tratto digerente e dal letame, ma anche sul contributo dei mangimi acquistati alla CFP. In linea generale, l’impiego dei sottoprodotti è vantaggioso rispetto a quello di solo mangime, perché ad essi viene attribuito solamente una parte dell’onere ambientale. Per questo motivo, alimenti come polpa di barbabietola, crusca, panello di girasole o farine estruse sono la scelta primaria per ridurre il contributo dei mangimi acquistati alla CFP. Questa strategia ha anche effetti benefici sullo sfruttamento del suolo o sulla competizione tra esseri umani ed animali. Anche l’origine dei mangimi è importante, ma le conclusioni degli studi sono controverse. Sasu-Boakye et al. (2014) hanno scoperto che la produzione locale di proteine contribuisce a ridurre le CFP della carne suina e della produzione di latte, perché richiede meno input, come i fertilizzanti azotati. Al contrario, Lehuger et al. (2009) hanno osservato che l’utilizzo della soia importata sembrerebbe essere più sostenibile dal punto di vista ambientale rispetto all’utilizzo di farina di colza prodotta localmente. I combustibili fossili sono un altro importante input che influenza le emissioni di CO2 e le attività agricole rappresentano la fonte principale. La tipologia e il numero di attività e di attrezzature agricole influiscono sul bilancio energetico dell’azienda agricola e sulla CFP finale delle carni bovine (Salam et al., 2010). I sistemi di coltivazione senza aratura e con minima lavorazione consumano meno carburante e sono associati a una minore CFP dei raccolti. L’utilizzo del letame prodotto in azienda è preferibile all’utilizzo dei fertilizzanti sintetici, perché questa pratica riduce gli input di N. Tuttavia, anche la scelta di fertilizzanti azotati può contribuire alla diminuzione della CFP della carne bovina. Questa tipologia di fertilizzanti richiede energia, principalmente da fonti non rinnovabili. Sebbene la sintesi dell’urea richieda più energia rispetto a quella del nitrato di ammonio, del nitrato di calcio e del solfato di ammonio (Skowron´ska e Filipek, 2014), la sua CFP è la più bassa a causa delle sue limitate emissioni di N2O dopo l’applicazione (Schils et al., 2013).

Sistemi di allevamento agroecologici per la produzione di carne bovina: ritorno al futuro

Da un punto di vista ambientale, il sistema vacca-vitello è associato a maggiori emissioni di GHG per unità di carne bovina prodotta; tuttavia, vengono segnalati servizi ecosistemici positivi dato il contributo di questo sistema di allevamento alla formazione del paesaggio, alla conservazione della biodiversità naturale e al mantenimento del patrimonio socio-culturale (Obubuafo et al., 2008; Wiltshire et al., 2011; Alliance Environment, 2020). Inoltre, il sistema di allevamento vacca-vitello è percepito meglio dai consumatori in termini di benessere animale (Risius e Hamm, 2017). I sistemi per l’ingrasso con alimentazione a base di cereali sono solitamente più efficienti per quanto riguarda l’intensità di emissione di GHG (kg di emissione di CO2 per kg di carne bovina), ma vengono riportati alcuni segnali ambientali dovuti alla gestione del letame, all’elevata densità di animali per ettaro, all’elevato consumo di cereali che crea competizione con l’alimentazione per l’uomo. Pertanto, la filiera della carne bovina deve essere migliorata per quanto riguarda l’efficienza nella prima parte e per i servizi all’ecosistema nella seconda. Tra questi servizi, il sequestro del carbonio è il più importante, ma è oggetto di un intenso dibattito. Infatti, la capacità di sequestrare la CO2 atmosferica non è permanente e la durata di tale capacità dipende da molti fattori, quali suolo, clima, sistemi di coltivazione dei foraggi, irrigazione e fertilizzazione (Arrouays et al., 2002). La FAO (2019) ha esaminato un elenco di modelli che quantificano gli scambi di C tra atmosfera e suolo. Nel LCA, il sequestro del carbonio viene considerato quando c’è un cambiamento nella destinazione d’uso del terreno (ad esempio, da terreno coltivato a pascolo) o un cambiamento significativo nella gestione del terreno (ad esempio, il passaggio dalla fertilizzazione minerale alla fertilizzazione organica). Tuttavia, finora non c’è consenso sulla portata degli effetti in relazione ai cambiamenti climatici. Ci sono, almeno, due principali argomenti di discussione: (i) caratterizzazione del fattore della CO2 sequestrata, perché non può essere uguale a quella emessa, ma deve essere correlata alla durata del cambiamento di destinazione d’uso del terreno (quanto dura il prato permanente?); (ii) per quanto tempo il cambiamento di destinazione d’uso del terreno, o il cambiamento della sua gestione, determinano una rimozione di CO2 dall’atmosfera superiore alla sua emissione? Nei sistemi zootecnici, lo stoccaggio di carbonio nel suolo o negli alberi può essere migliorato in diversi modi. La regola principale è evitare di interferire con il suolo. Nel caso dei sistemi misti, esistono almeno quattro strategie per aumentare i depositi di carbonio.

  1. Aggiunta di letame e colture di copertura. L’applicazione continua di materia organica sul suolo in un sistema di coltivazione del foraggio a base di mais aumenta il deposito di carbonio nel suolo rispetto all’applicazione di fertilizzanti azotati sintetici. Zavattaro et al. (2017), dopo aver esaminato 80 esperimenti sul campo europei a lungo termine, ha concluso che l’applicazione di letame solido o liquido ha un effetto leggermente negativo sulla produzione agricola, ma aumenta significativamente il deposito di carbonio organico del suolo. Le colture di copertura sono efficaci nell’aumentare la concentrazione di carbonio organico nel suolo e la loro capacità di sequestrare il carbonio è duratura, senza alcun effetto negativo sulla produzione (Poeplau e Don, 2015).
  2. Ridurre le attività agricole. Oltre a ridurre il consumo di gasolio, la lavorazione assente o minima del terreno favorisce l’accumulo di C e N in esso (Küstermann et al., 2013).
  3.  La conversione dei terreni coltivati in pascoli permanenti è considerata una misura strategica per aumentare il deposito di carbonio nel suolo evitando la competizione tra bestiame ed agricoltura nel fornire alimenti per gli esseri umani, specialmente in quelle regioni dove i sistemi di allevamento sono intensivi. Castelli et al. (2017) hanno osservato un aumento lineare del deposito di C per un periodo di 30 anni dopo conversione di una monocoltura continua di mais in pascolo permanente senza lavorazione. Arrouays et al. (2002) hanno suggerito un flusso netto di C nel suolo di circa 500 kg/ha all’anno con una variabilità di 250 kg di C/ha all’anno per un periodo di 20 anni, dopo i quali non si ha più un sequestro significativo. Occorre inoltre tenere in considerazione che la rimozione dei pascoli permanenti determina una rapida emissione di CO2 nell’atmosfera. Anche i pascoli temporanei contribuiscono all’abbassamento della CO2 atmosferica, ma la quantità di C sequestrata nel suolo dipende dall’estensione del pascolo e si perde dopo l’aratura (Dollé et al., 2013). Gli stessi autori hanno indicato un aumento di 80 kg di C/ha all’anno e una perdita di 160 kg di C/ha all’anno come conseguenza della conversione dei pascoli permanenti in terreni coltivati (Dollé et al., 2013).
  4. Agroforestazione. La presenza di boschi o cespugli è una misura molto efficace per aumentare lo stoccaggio di carbonio sia nel suolo che negli alberi. L’imboschimento di seminativi ha il potenziale di aumentare lo stock di carbonio di 450 ± 250 kg di C/ha all’anno in 20 anni (Arrouays et al., 2002). Anche la creazione di siepi ha il potenziale di far aumentare il sequestro del carbonio, che secondo Arrouays et al. (2002) rappresenta circa 100 kg di C/ha all’anno. Inoltre, secondo Dumont et al. (2018), la convergenza tra agroecologia ed intensificazione sostenibile potrebbe essere una risposta fattibile per ottenere sistemi di allevamento dei ruminanti socialmente equi ed economicamente sostenibili; l’agroforestazione può essere considerata un potenziale candidato per raggiungere un punto di incontro tra intensificazione sostenibile e agroecologia. I sistemi agroforestali combinano la produzione agricola, quella zootecnica e forestale integrata nella stessa area e con un utilizzo efficiente degli input. Il potenziale dell’agroforestazione nel contribuire allo sviluppo sostenibile e alla futura sicurezza alimentare è stato riconosciuto dalla United Nations Framework Convention on Climate Change e dalla Convention on Biological Diversity (FAO, 2013). I sistemi agroforestali sono utili in quanto forniscono servizi all’ecosistema come l’accumulo di carbonio, il rigenerarsi delle falde acquifere e la biodiversità. Inoltre, i sistemi agroforestali sono più resistenti ai cambiamenti climatici, fornendo maggiore comfort termico agli animali. I servizi all’ecosistema apportati dai sistemi agroforestali sono stati dimostrati principalmente nelle aree tropicali e subtropicali, dove la necessità di migliorare l’efficienza della produzione di carne bovina è strettamente correlata alla gestione delle aree di pascolo (De Souza Filho et al., 2019). De Oliveira Silva et al. (2016) hanno dimostrato che la scissione della produzione di carne bovina dalla deforestazione e il ripristino dei pascoli degradati sono elementi chiave per istituire una filiera della carne bovina (per le aree subtropicali) in grado di incrementare la produzione mondiale di carne, senza aumentare le emissioni di GHG. Risultati simili sono stati ottenuti applicando l’agroforestazione alla produzione di carne bovina, combinando l’effetto dell’aumento dell’efficienza dei bovini da carne (dovuta al miglioramento della qualità dei pascoli) e quello del sequestro di carbonio da parte dei pascoli e degli alberi. Inoltre, i cambiamenti del microclima associati ai sistemi agroforestali possono migliorare le performance degli animali rispetto ai sistemi di pascolo tradizionali. Secondo Giro et al. (2019), infatti, i bovini da carne mantenuti in sistemi agroforestali hanno mostrato una preferenza significativa verso le zone all’ombra e una riduzione del consumo di acqua. Ciò ha portato a migliori performance produttive e ad un migliore utilizzo delle risorse naturali. Recentemente, anche nelle aree temperate, i sistemi agroforestali sono stati considerati una possibile opportunità per migliorare la sostenibilità e l’adattamento ai cambiamenti climatici dei sistemi agricoli e zootecnici (Aguilera et al., 2020). Secondo la stima fatta dal progetto AGFORWARD (www.agforward.eu), in Europa, quasi il 9% dei terreni agricoli utilizzati è attualmente gestito come sistema agroforestale, principalmente come utilizzo tradizionale del suolo (den Herder et al. 2017). Inoltre, l’interesse per l’agroforestazione come sistema produttivo innovativo verso una transizione agroecologica è in aumento (Aguilera et al., 2020). Il contributo italiano al sistema agroforestale è significativo, essendo la quarta area di agroforestazione in Europa (1.4 milioni di ettari; Paris et al., 2019). Attualmente, il numero di studi sull’applicazione dei sistemi agroforestali nella produzione di carne bovina in Europa è ancora scarso. Recentemente è stato segnalato il CFP del sistema agroforestale Dehesa per la produzione di carne bovina in Spagna. Lo studio ha chiaramente evidenziato che la metodologia di LCA dovrebbe includere anche il sequestro del carbonio operato da praterie ed alberi, al fine di considerare correttamente la CFP dei sistemi agroforestali (Eldesouky et al., 2018). Applicando questo al LCA, la CFP della produzione di carne bovina nei sistemi agroforestali di Dehesa si è ridotta del 20-30% rispetto ai dati di riferimento, come conseguenza del contributo del sequestro del carbonio da parte di pascoli e alberi (Eldesouky et al., 2018). Confrontando le emissioni di GHG della prima parte del ciclo produttivo della carne bovina (dalla nutrice allo svezzamento) con la seconda parte (dallo svezzamento all’ingrasso in allevamento), i valori più elevati di CFP (espressi come kg di CO2 per kg di peso vivo) erano generalmente associati alla prima parte, per la maggiore emissione da fermentazione enterica (O’Brien et al., 2020). Tuttavia, considerando il ruolo di sequestro del carbonio svolto da pascoli e alberi nei sistemi agroforestali, quando l’unità funzionale dell’analisi della CFP è l’ettaro, l’impatto della parte estensiva del ciclo produttivo della carne bovina può essere inferiore a quello del sistema intensivo (Eldesouky et al., 2018).

Ruolo del consumatore all’interno della filiera della carne bovina

Ogni sistema di allevamento adottato lungo filiera della carne bovina è il risultato di interazioni tra molteplici fattori quali: condizioni naturali di allevamento, sistema di produzione (intensivo o estensivo; convenzionale o biologico), esigenze del mercato (carne grassa o magra), razza allevata e tradizione. Purtroppo, la segmentazione della filiera della produzione/commercializzazione delle carni bovine in una serie di settori (es. produttori di vacche/vitelli, stockers/backgrounders, ingrasso, confezionatori, rivenditori e ristoratori), che non sono integrati tra loro, porta a incongruenze e a carenze di qualità nei bovini e nei prodotti a base di carne bovina, e blocca gli sforzi fatti per allineare gli obiettivi di produzione con le aspettative dei consumatori (Tatum et al., 2000). Tuttavia due fattori, non propriamente classificabili come fattori produttivi, rivestono particolare importanza nell’influenzare i sistemi agricoli del futuro: le politiche comunitarie e le scelte dei consumatori. Le politiche comunitarie, in particolare in Europa, favorendo il sistema estensivo con premi monetari, lo rendono economicamente più conveniente (maggiore margine lordo per capo e per ettaro) rispetto al sistema di allevamento convenzionale, anche se quest’ultimo però produce una resa maggiore alla macellazione, una migliore conformazione della carcassa, un colore della carne migliore e una produzione di carcasse per ettaro tre volte superiore (Keane e Allen, 1998). Le crescenti esigenze dei consumatori – soprattutto di quelli che hanno maggiori conoscenze sulle caratteristiche nutrizionali e salutari della carne – riguardo la produzione di carni bovine ottenute con sistemi più rispettosi del benessere animale e dell’ambiente, grazie anche alla disponibilità del consumatore a pagare di più, avranno una maggiore influenza sulle scelte degli allevatori (Xue et al., 2010; Hocquette et al., 2014). Il consumatore a volte cade in contraddizione per mancanza di conoscenza; infatti, è chiaro che le caratteristiche qualitative della carne bovina grass-fed sono diverse da quelle della carne bovina allevata secondo il metodo convenzionale (finissaggio in recinti per l’ingrasso con diete a base di soli concentrati) in termini di marezzatura, colore, consistenza della carne, tenerezza, succosità e sapore. Ad esempio, la carne grass-fed ha un colore del longissimus dorsi più scuro e grasso più giallo; però ha uno spessore del grasso inferiore rispetto agli animali ingrassati con concentrato. Sebbene il colore della carne non sia una caratteristica importante per il consumo, è un fattore importante che influisce sulla scelta del consumatore: solitamente viene preferita la carne brillante, color rosso ciliegia, mentre la carne chiara o scura è meno apprezzata (Xue et al., 2010). Morales et al. (2013) hanno mostrato che i consumatori non sono sempre in grado di differenziare la carne proveniente da animali allevati al pascolo da quella proveniente da bovini allevati con metodo convenzionale sulla base delle sole caratteristiche sensoriali. Al contrario, i consumatori informati sui sistemi di allevamento hanno atteggiamenti favorevoli e un’elevata accettabilità per le carni bovine grass-fed. Questa differenza di preferenze dei consumatori per la qualità della carne bovina basata sulla conoscenza dell’origine è ben rappresentata dalla distinzione che viene fatta tra tratti di qualità intrinseci ed estrinseci, come proposto da Grunert et al. (2004). La grande importanza che rivestono i tratti di qualità estrinseci (come le informazioni sull’origine della carne) sull’orientamento della scelta del consumatore può essere sfruttata per lo sviluppo di strategie di marketing delle carni bovine. Le idee del consumatore sull’impatto ambientale lo hanno portato ad avversare i sistemi convenzionali (intensivi) di produzione della carne bovina sulla base di una conoscenza limitata tanto che, grazie al miglioramento genetico, a migliori tecniche di alimentazione e di gestione, l’impatto ambientale del sistema di allevamento convenzionale è stato ridotto in modo significativo. La crescente attenzione dei consumatori per “l’affidabile qualità alimentare” della carne bovina ha ispirato alcune iniziative messe in atto in diverse parti del mondo (Ardeshiri e Rose 2018; Ellies-Oury et al., 2019) per fornire indicazioni chiare e decise sulle caratteristiche qualitative della carne al momento dell’acquisto/consumo, che potessero sostituire anche le precedenti (Liu et al., 2020). In effetti, i sistemi di valutazione differiscono ampiamente tra i paesi, essendo alcuni più completi di altri (Polkinghorne e Thompson, 2010). In particolare, il sistema europeo di classificazione delle carcasse (SEUROP) si è dimostrato poco affidabile nel riflettere la qualità finale delle carni bovine per i consumatori, poiché essi non sono in grado di percepire le differenze nei tagli ottenuti da carcasse appartenenti a classi diverse (Bonny et al., 2018). Per superare questi problemi, l’UNECE ha lanciato un’iniziativa per standardizzare la classificazione delle carcasse bovine sulla base di un sistema già sviluppato con successo in Australia, che ha messo a punto lo schema di classificazione “Meat Standards Australia” (Hocquette et al., 2020). Sfortunatamente, l’industria della carne è molto conservatrice e riluttante a qualsiasi cambiamento (Troy e Kerry, 2010), anche se lo sconvolgimento mondiale generato dalla pandemia di Sars-CoV, unitamente alle preoccupazioni generate dall’approccio ideologico verso l’impatto dei sistemi di produzione della carne bovina e dalla concorrenza della carne contraffatta, costringerà la filiera di produzione della carne bovina ad adattarsi rapidamente alle richieste dei consumatori.

Conclusioni

La redditività e la sostenibilità della filiera della carne bovina su scala globale è una questione molto complessa. Infatti, la varietà dei sistemi di allevamento esistenti nel mondo e il numero di fattori che li possono condizionare non consentono di stabilire quale sia il migliore; d’altronde, è necessario individuare quali siano le migliori strategie di gestione nelle diverse condizioni di allevamento, alcune delle quali appaiono difficilmente modificabili (es. condizioni naturali). Al contempo, è necessario pensare ad un sistema produttivo in continua evoluzione, legato allo sviluppo sociale e culturale non solo degli allevatori, che sono molto diversi nel mondo, ma di tutte le componenti della filiera compresi i consumatori. L’allevamento da latte dovrebbe essere considerato come una risorsa importante per la produzione di carne bovina e l’ottimizzazione delle tecniche di incrocio tra razze (infatti possono essere prodotti più vitelli incrociati) potrebbe far aumentare la produzione e l’offerta di carne. Le opportunità derivanti dall’utilizzo di seme sessato dovrebbero favorire il miglioramento genetico delle mandrie da latte e la qualità della resa della carne proveniente da incroci di razze da latte × razze da carne. Inoltre le carni ottenute da incroci razza da latte × razza da carne hanno un più basso impatto ambientale rispetto alle razze pure di bovini da carne. Per raggiungere questi obiettivi il settore ha chiaramente bisogno di una pianificazione mirata della riproduzione negli allevamenti da latte, di un sostanziale miglioramento dei sistemi di valutazione della carne per le carcasse e per i tagli di elevata qualità ottenuti da incroci, e di una comunicazione chiara con i consumatori, per evitare perdite commerciali dovute alla promozione di carne ottenuta da incroci ma, in effetti, necessaria per l’intera filiera della carne bovina in generale. L’impatto ambientale e i benefici della carne bovina variano in modo significativo in base ai sistemi di produzione. L’esperienza e la letteratura mostrano che la produttività li riduce, ma esistono numerose strategie diverse dalla nutrizione che possono influenzare positivamente le performance degli allevamenti bovini a livello ambientale. Sarà ancora necessario rendere la filiera della carne bovina più efficiente dal punto di vista economico, più trasparente e più affidabile per gestire al meglio la qualità dei prodotti e, quindi, per accrescere la fiducia dei consumatori. Le pratiche nutrizionali/di alimentazione che si sono rivelate più efficaci nel mitigare l’impatto ambientale della filiera della carne bovina sono le seguenti:

  • alimentazione di precisione: diete formulate per soddisfare i fabbisogni animali senza eccedenze di nutrienti (N, P, ecc.);
  • corretta alimentazione della mandria per ottimizzare i parametri riproduttivi, riducendo il tempo necessario per l’ingrasso della prole;
    formulazione di diete per le elevate performance dei bovini da carne, in particolare nei sistemi intensivi; in questo modo il costo economico ed ambientale del mantenimento viene ammortizzato da un incremento maggiore di peso, riducendo l’impatto per kg di carcassa o di carne;
  • migliorare la qualità del foraggio al fine di ridurre l’acquisto di mangimi esterni e i concomitanti costi ambientali;
  • utilizzo dei sottoprodotti per ridurre i costi dei mangimi e promuovere un’economia circolare;
  • utilizzo di alcuni additivi consentiti per ridurre le emissioni di metano ruminale.

Il rispetto dell’ambiente e del benessere animale, nonché la qualità e la sicurezza sanitaria delle carni bovine, saranno i capisaldi che guideranno il moderno sviluppo di questo settore, grazie alle conoscenze scientifiche, allo sviluppo della zootecnia di precisione e all’informatica. Inoltre, la convergenza dell’agroecologia e dell’intensificazione sostenibile potrebbe favorire la realizzazione di sistemi di allevamento dei ruminanti socialmente equi ed economicamente sostenibili. L’agroforestazione può essere considerata un potenziale candidato per raggiungere un punto di incontro tra intensificazione sostenibile e agroecologia. Tuttavia, per attirare nuove generazioni di allevatori, sicuramente più inclini all’utilizzo delle nuove tecnologie, sarà comunque necessario rendere più efficiente da un punto di vista economico il settore della produzione di carne bovina.

Per approndire l’argomento, scarica il materiale supplementare: Beef for future Animal 2021 Supplemental materials

 

Animal board invited review – Beef for future: technologies for a sustainable and profitable beef industry

G. Pulinaa, M. Acciarob, A.S. Atzoria, G. Battaconea*, G.M. Crovettoc, M. Meled, G. Pirloe, S.P.G. Rassua

a) Dipartimento di Agraria, University of Sassari, Sassari, Italy
b) AGRIS Sardegna, Sassari, Italy
c) Dipartimento di Scienze Agrarie e Ambientali, University of Milan, Milano, Italy
d) Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agroambientali, University of Pisa, Pisa, Italy
e) Research Centre for Animal Production and Aquaculture, Council for Agriculture Research and Economics, Lodi, Italy.

*Corresponding author: battacon@uniss.it

DOI: https://doi.org/10.1016/j.animal.2021.100358

© 2021 The Author(s). Published by Elsevier B.V. on behalf of The Animal Consortium.

Open access. Licence CC BY-NC-ND  (http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/4.0/).

 

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